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Scrivere
Esistono regole, ma per essere violate
 
10/04/2003
Sempre da "Exercice du scenario" di J.C. Carrière, una breve riflessione sulle regole della sceneggiatura.
 
ESISTONO REGOLE, MA PER ESSERE VIOLATE

Ad ascoltare certi teorici americani, che non si sa se abbiano mai letto Aristotele o Boileau, uomini e donne che insegnano tenacemente, a colpi di regole, l'efficacia delle "strutture", e che non si interessano che al successo pubblico immediato (quello che nel XVII secolo si chiamava piacere), si potrebbe credere che uno sceneggiatore oggi debba prima di tutto inaridire il proprio spirito, indurirlo, restringerlo, per obbligarlo a passare nei posti più stretti. L'immaginazione sarebbe allora quasi pericolosa, come una curiosità, sorella della cultura. Bisogna studiare quello che c'è stato l'anno prima, dimostrane metodicamente (e questo quasi sempre vuol dire arbitrariamente) le "strutture" e ripeterle instancabilmente. Che ci siano delle regole, nessuno ne dubita. Spesso sono semplici e si possono riassumere in una sola raccomandazione: catturare e mantenere l'attenzione dello spettatore. Questa regola vale per tutte le storie possibili e anche per le non storie, per le assenze di storie. Se nessuno più ci ascolta, se ci abbandonano a metà strada, siamo perduti, inutili. Un'espressione che non interessa non esiste. È un capriccio isolato, senza scopo, senza esistenza. Questa verità elementare, abbiamo visto, è conosciuta da sempre. Aristotele non è il solo ad essersi occupato di quello che chiamiamo l'interesse drammatico. Cinesi, indiani, giapponesi, tutti hanno avvertito questa necessità primaria: bisogna interessare quelli a cui ci si rivolge. Se un autore scrive solo per se stesso, non deve lamentarsi di essere solo. Quando si vuole passare dalla regola generale alle regole particolari, le cose si complicano. I pubblici non sono mai gli stessi, esistono tradizioni differenti nell'arte di raccontare le storie. Si va dalla linea discorsiva e zigzagante delle Mille e una notte, che si prolunga fino a Don Chisciotte, il romanzo picaresco spagnolo, Tom Jones e Jacques le fataliste, al puro dramma greco che arriverà a concentrare arbitrariamente l'azione, nella seconda metà del XVII secolo francese, come recitano i versi di Boileau:

"che in un luogo, in un giorno, un solo fatto sia compiuto per tenere fino alla fine il teatro riempito"

è la famosa regola delle tre unità, che fece nascere qualche capolavoro e, durante il XVIII secolo, molte miserabili tragedie oggi non più rappresentate. È così per ogni regola: per un po' di tempo la si esercita con profitto, nell'ambiente storico cultura che le si addice, dopo di che piomba velocemente nella desuetudine. Bisogna dimenticarla, il prima possibile se si vuole creare un'opera vivente.
Per quel che riguarda i precetti dei professori americani, certamente possono portare al successo nell'ambito delle serie televisive di medio livello. Non saprebbero guidare la composizione di un'opera notevole, perché per loro stesso definizione questi precetti coltivano il déjà vu. Ma soprattutto - oltre il fatto che ogni direttiva artistica di questo ordine, di tipo dittatoriale, porta lo sceneggiatore a chiudersi invece che a aprirsi e a espandersi - lo portano necessariamente, dopo qualche anno di attività ripetitiva e qualche volta fruttuosa, a vedersi abbandonato sulla sabbia dopo che la marea si è ritirata. Perché il mondo cambia, che lo vogliamo o no, alcuni dicono troppo in fretta, e quelli che erano meccanicamente aridi e fermi sulle regole ben apprese saranno incapaci di adattarsi, di cambiare musica, di respirare l'aria di domani.
Può essere vero, come si legge nei manuali, che c'è bisogno di un'azione forte nei primi tre minuti, una ripresa alla fine della seconda bobina, un colpo di scena qui e un momento di rilassamento là ma è vero anche il contrario. Da tempo le regole drammatiche, come tutte le regole, sono state violate. Da tempo, per esempio, la mescolanze dei generi - naturale per Shakespeare, inconcepibile per Boileau - si pratica ovunque, spesso felicemente. E quante volte si è visto riprendere tutti gli elementi di successo per finire in un fiasco totale? I produttori si lamentano che non si sa più come fare un successo. Se si potesse guadagnare sempre, ad ogni colpo, il cinema non sarebbe che un meccanismo commerciale. Per fortuna spesso resta ancora imprevedibile. Prova che, nel bene o nel male, è un'arte. Il termine drammaturgia è di convenienza. È stato inventato per provare ad imprigionare in una sola parola - compito impossibile - l'ondata mutevole dei racconti, la realtà della relazione poco conosciuta tra il narratore e il pubblico. Ma questa parola non ha più senso, a guardarla da vicino, della parola gestuale o della parola interiorità! Non resta, come solo giudice, quando si scrive per il cinema, che quel misterioso teatro interiore, la più oscura delle sale, che ognuno di noi possiede dentro, e dove ognuno, in maniera imperfetta ed esitante, fa la prima proiezione del film che stiamo immaginando. In questa visione solitaria, difficile da descrivere, dove la meraviglia, la fierezza, l'amor proprio provano ad andare d'accordo, le regole si seguono e si trasgrediscono, in una luce incerta, qualche volta a nostra insaputa.
Se questa solitudine risulta disperata e non vivibile la dualità autore-spettatore, allo stesso tempo nello stesso corpo, allora bisogna aggiungere un altro teatro, un altro pubblico, bisogna lavorare in due, in tre, sopportare le critiche e anche i fischi che ci fanno male, e dirci che una scena, un'immagine, una frase che piace a due persone, e non più solo ad una, avrà due chance in più di avere un giorno questa massa imprecisa e compatta, indefinibile ma decisiva, che chiamiamo pubblico

Tratto da "Exercice du scenario" J.C. Carrière, P. Bonitzer Femis 1990

Traduzione dal francese di Francesco Patrizi
 
Scritto da Trad. Francesco Patrizi
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