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Interviste
Giovani Sceneggiatori 2003
 
15/07/2003
Intervista a Fulvio Bergamin vincitore del Sonar GS 2003
 
1. Come nasce "Sotto pressione", perchè una storia sul "mobbing"?

Sottopressione nasce dall’esigenza di raccontare una realtà, il mondo del lavoro, che da troppi anni il cinema continua ad ignorare lasciando campo aperto alla banalizzazione compiuta dall’informazione e dall’intrattenimento televisivo. Un topos della cultura nazional-popolare è quello di difendere la tv da chi l'accusa di fornire prodotti di infima qualità, dicendo che è lo spettatore che la vuole così, leggera, disimpegnata, evasiva. Ma in realtà è la tv che si adegua all'incultura dello spettatore o è il gusto estetico dello spettatore che ha modo di esercitarsi solo sui programmi di costanzo, della de filippi e sulle fiction di padre pio? Un fatto sociologicamente accettato è che gli italiani stanno ridiventando un popolo di semianalfabeti, ma è colpa esclusiva della scuola? Siamo proprio sicuri che lo spettatore scelga liberamente cosa vuole vedere? Una volta, anche le opere di scarsa valenza culturale, miravano a qualcosa di più alto, tutti i programmi televisivi non erano mai fine a sé stessi, i film d'avventura (chi più chi meno) avevano sempre la presunzione di presentare una trama, un minimo di ricerca interiore sui personaggi, per non parlare di opere impegnate che spesso, oltre a costituire spettacolo non indifferente, facevano anche pensare. Oggi invece, sempre e dovunque conta solo la performance, il risultato sensibile, quello che si può vedere e misurare, non ci sono altre valenze neanche intraviste. Un film d'avventura conta solo per le scene mozzafiato quanto non violente o terrorizzanti. L'amore, che prima era soggetto per splendide commedie in cui s'intravedevano meravigliose trame di intrighi interiori fra diverse personalità. Oggi viene spalmato sui tavoli settori di quelle vergognose trasmissioni a larga diffusione di massa (tipo D'Eusanio). Da giovane lavoratore, io dico che i diritti ce li tolgono più con i reality show che con i cartelli elettorali: Saranno Famosi Grandi fratelli e compagnia bella sono trasmissioni devastanti che si reggono semplicemente sull'esaltazione della competizione diretta (il giochino della nomination), e in cui si blandiscono continuamente i giovani partecipanti sempre con lo stesso monito: lì fuori è una jungla e ne resterà solamente uno. Questa è la realtà, o l’accetti o sarai emarginato. Cinque o sei anni fa era diverso, ma adesso è impossibile andare in birreria il sabato sera e pronunciare la parola "posto fisso" senza essere assaliti sempre dallo stesso refrain da spastici:” io non voglio fare sempre la stessa cosa, voglio scampare i lavori fissi, i lunedì-venerdì sempre uguali e il sabato come unico momento di imprevedibilità. Voglio vivere ogni giorno come fosse l'ultimo.”
Come nei reality show, per l'appunto. Vivono nell’ansia, nell'angoscia perenne del fare, come se dovessero morire domani, il futuro non esiste, non vogliono prenderlo nemmeno in considerazione, tesi come sono a guardarsi l'ombelico. Che schifo il posto fisso, che schifo poter progettare serenamente il proprio futuro. Il fatto che tutto diventi relativo, che non ci siano valori importanti per i quali lottare: "che vuoi che mi interessi dell'art. 18 quando forse non avrò mai un posto fisso.." e allora? E’ il neoliberismo che avanza. Non v'insospettisce il fatto che i giovani possano fare discorsi del tipo "se nessuno ha il posto garantito ci saranno più libertà e più opportunità per tutti di esprimere le proprie potenzialità"? Io dico invece che ci saranno più possibilità per chi ha sempre comandato di continuare a farlo e per gli altri di prendersela in quel posto, e l'uno su mille che ce la fa non cambia la sostanza del discorso. Pensate al dibattito sulla flessibilità che si trascina da anni, al fatto che l'art 18 è stato deformato dai media a semplice strumento per "mantenere il posto" (se non lavori o non sai lavorare non c'è art 18 che tenga), quando in realtà è molto di più, slegati dal ricatto, l'art 18 è lo strumento per poter porre le proprie rivendicazioni al datore di lavoro senza timore. E non mi riferisco solo allo sciopero o all'iscrizione al sindacato. Non tutti i giovani hanno la fortuna di avere dei genitori alle spalle che gli mantengono gli studi. Ma vi sono molti che sono costretti a pagarsi da soli l'università, e non sto parlando dei lavoretti in pizzeria durante il weekend. Non deve essere proprio facile rifiutarsi di fare due ore di straordinario se lavori in una piccola azienda (o se ti sta per scadere quella figata del contratto di formazione) perchè hai bisogno di tempo per studiare o per lavorare alla tua sceneggiatura. O forse il figlio dell'operaio non deve poter aspirare alla laurea, non deve poter accedere a uno strumento di espressione come il cinema storicamente in mano alla borghesia? Dipende da che idea si ha della modernità, ma in questi tempi così regressivi, non mi viene in mente niente di più moderno dell'art 18. Per questa ragione ho avvertito l’esigenza di affrontare nella mia storia un fenomeno come il “mobbing”, che nessuno aveva ancora pensato di portare al cinema, e mi domando francamente per quale ragione, visto che si tratta di una situazione di conflitto da sempre molto diffusa e molto interessante soprattutto dal punto di vista cinematografico. Bruno Vespa per parlare di mobbing nella sua trasmissione ha invitato nelle vesti di “mobbizzato” un tizio vestito da carcerato e Paolo Villaggio mascherato da Fantozzi; come dire, ragazzi, il mobbing è una cosa lontana, che può toccare al massimo a qualche sciroccato o a qualche ragioniere sfigato. Ma la realtà è molto diversa. In Sottopressione cerco di raccontarla. Volevo raccontare il mondo del lavoro nel modo più onesto e sincero possibile, non troverete perciò nella mia sceneggiatura operai che si incatenano al cancello della fabbrica, che costruiscono siti internet o che lottano per salvare il posto di lavoro. Ma non volevo ridurre Sottopressione alla semplice “denuncia” da film-dossier, mi interessava cercare di costruire una riflessione più ampia, un critica più profonda sul sistema produttivo-industriale che mettesse in discussione non tanto la “logica del profitto” bensì questo inseguimento forsennato verso l’efficienza, l’omologazione dei ritmi di lavoro che è condizione necessaria per produrre sempre di più e sempre in meno tempo. Iniziano fin dalla scuola, “avete un ora di tempo per svolgere il tema”; a nessuno viene più data la possibilità di cercare, di trovare il proprio ritmo, o ti adegui ai tempi sempre più frenetici degli altri oppure vieni emarginato. Pensate al cinema, che per sopravvivere è costretto ad omologarsi ai tagli vertiginosi dei videoclip e degli spot con i quali veniamo bombardati tutti i giorni. Emerge sempre di più il disagio verso qualunque cosa richieda un’attenzione che superi i tre o quattro secondi, c’è soprattutto in noi giovani una pericolosa incapacità all’ascolto. C’è l’elogio continuo della velocità, la lentezza non fa notizia, viene lasciata ai margini, non trova spazio ed è un male, perché è la lentezza che permette di pensare, di riflettere. Ma noi non dobbiamo riflettere, non c’è tempo per pensare, dobbiamo essere efficienti, fare le cose sempre più in fretta; questo ci snatura, ci rende sempre meno umani, è come se fossimo perennemente sottoposti a uno di quei test per valutare la resistenza alla velocità degli astronauti che ne escono sempre con la faccia stravolta, deforme, mostruosa. Disumana. Sarà un caso, ma la macchina più efficiente mai costruita dall’uomo sono i campi di sterminio nazisti.

2. Puoi descriverci il metodo di lavoro che hai utilizzato per scrivere questo script, hai svolto ricerche? Incontrato persone? C'è anche una componente autobiografica?

Premesso che il metodo di lavoro è una cosa che ogni aspirante sceneggiatore dovrebbe costruirsi da sé, assecondando la propria sensibilità, io credo che in realtà l’unica cosa che serva per scrivere una buona storia sia avvertire un senso di responsabilità mentre si scrive, pensare che quello che scrivi potrà influenzare un poco l’immaginario collettivo, non importa se poi ti leggerà soltanto tua mamma. Diffido di chi scrive tanto, magari tutti i giorni. Ricordo uno dei compagni della scuola di cinematografia che ho frequentato: in un anno era riuscito a scrivere tre sceneggiature per lungometraggio, tutte e tre particolarmente orripilanti. Non era il metodo di lavoro che gli mancava (altrimenti non sarebbe mai riuscito a completare tre sceneggiature), io credo che gli mancasse semplicemente il senso di responsabilità di fronte alla scrittura, e non so se è una cosa che si può insegnare. Da questo punto di vista non credo ci sia molta differenza tra lo scrivere un film o lo scrivere un romanzo; in entrambi i casi stai raccontando una storia, i meccanismi narrativi che stanno dietro non cambiano. Per questo, per quanto riguarda Sottopressione, ho ritenuto necessario confrontarmi con la scrittura anche dal punto di vista letterario. In genere chi non riesce a scrivere un buon “trattamento” si ripara dietro al fatto di non essere uno scrittore ma uno sceneggiatore. Ma io credo che in realtà questa difficoltà verso il “trattamento” dipenda molte volte da nodi narrativi che non si sono ancora risolti o ben sviluppati. Io so benissimo di non essere uno scrittore; non mi sono mai alzato la mattina con la voglia di prendere la penna in mano. Per me il trattamento è una specie di “prova del nove”, se riesci a stendere la storia che hai in mente in un raccontino di una decina di pagine che regga dal punto di vista della tensione letteraria, della dimensione dei personaggi, non vuol dire che sei uno scrittore; significa che hai sciolto i nodi, che hai compreso i meccanismi narrativi che terranno lo spettatore incollato al film che ora sei pronto per cominciare a scrivere. Per questo è importante non lavorare in solitudine, ma cercare di coinvolgere il più possibile le persone che ti stanno intorno (e a me ha aiutato molto una persona in particolare), per raccogliere, su quello che stai (ri)scrivendo, più opinioni che consigli. Sottopressione nasce così, da un lavoro lunghissimo e complesso sul trattamento durato quattro anni. Una fatica molto grande che mi ha però permesso di scrivere in un solo mese, facilmente e divertendomi come un pazzo, la mia prima sceneggiatura. La struttura narrativa era già risolta, mi dovevo preoccupare solo di stendermi sul letto, chiudere gli occhi e trovare le immagini, una cosa fantastica. Trovare le immagini è più facile se prima sei riuscito a trovare le parole. Poi certo, uno si dovrebbe anche documentare sulla tematica che intende affrontare, approfondirla il più possibile soprattutto per evitare di cadere nei cliché, nei luoghi comuni; ma in Sottopressione io mi muovevo in un contesto che mi era assolutamente famigliare, che conoscevo già molto bene: io sono un lavoratore da 1000 euro al mese e anche i miei genitori hanno fatto gli operai tutta la vita, perciò la mia documentazione si è limitata alla lettura di qualche libro sul mobbing.

3. Ci sono film del passato a cui in qualche modo ti sei ispirato, nello scrivere questa sceneggiatura?

Sì, c’è un film al quale ho fatto riferimento, “Le onde del destino” di Von trier, ma solo per quanto riguarda il finale. Avevo scritto una versione del trattamento abbastanza buona ma facendola leggere a qualche amico mi ero reso conto che il finale non arrivava, manteneva un’ambiguità che poteva spiazzare negativamente lo spettatore. In parole povere, non si capiva. Ad un certo punto mi ero convinto che il problema del finale fosse la sua “irrazionalità”. Con l’aiuto dei ragazzi di “Affabula Readings”, ai quali avevo spedito la storia, sono riuscito a scrivere una versione del trattamento che dava una spiegazione “razionale” alla storia. Ciò nonostante, questo finale razionale non piaceva alle persone alle quali lo facevo leggere, non li emozionava, e non convinceva nemmeno me. Poi un giorno mi è capitato di rivedere “le onde del destino” e quel finale straordinario, la campana che suona in mezzo all’oceano, una cosa molto cinematografica ma assolutamente irrazionale. Von trier non spiega come diavolo si possa trovare una campana in mezzo all’oceano, il suo finale funziona proprio perché va a toccare le corde dell’irrazionalità, tocca quella particolare sfera in cui risiedono le emozioni dello spettatore. E’ un po’ come proiettarlo nella dimensione onirica, nel sogno. Così ho realizzato che il problema del mio finale non era l’”irrazionalità”. In realtà il mio finale non si capiva perché era poco cinematografico. Ed infatti poi l’ho risolto appieno solo nella sceneggiatura, mentre nel trattamento probabilmente rimane ancora po’ troppo “sospeso”. Per il resto, nello scrivere Sottopressione ho fatto riferimento soprattutto alla realtà che mi circondava. Quasi tutti i personaggi, soprattutto i più assurdi e grotteschi, sono presi direttamente da lì: esiste davvero quel direttore con la faccia deforme, che ti accoglie nel suo ufficio accarezzando un gatto, esiste davvero Carlo Caneva , ma esiste davvero anche Riccardo Priante (anche se per fortuna la sua vicenda si è risolta in modo molto più fortunato che nella mia sceneggiatura); l’idea di scrivere una storia sul mobbing mi è venuta proprio assistendo ad un caso di mobbing che si è consumato nell’azienda nella quale lavoravo.

4. Tu sei un giovane ancora inedito, quali sono le difficoltà che hai incontrato per riuscire a farti conoscere?

Sinceramente quello di farmi conoscere è un problema che non mi sono ancora mai posto. Anzi, ho sempre cercato di stare alla larga soprattutto da quelli (e ce ne sono!) che ti consigliano di andare alle feste, metterti i vestiti giusti, sorridere molto o roba del genere. Magari sarò ingenuo, ma mi è sempre piaciuto pensare che per farsi conoscere basti scrivere una buona storia. Da questo punto di vista, per me la vera difficoltà è stata capire cos’è una storia, cos’è cinema e cos’è letteratura. Per riuscirci ho dovuto frequentare una scuola, la “Libera Università del Cinema di Roma” (che è la stessa che ha frequentato Crialese, il regista di Respiro, prima di andare negli Stati Uniti), ma per le scuole di cinematografia molto dipende dallo spirito con le quali le fai, dalla voglia e dalla capacità che hai di metterti in discussione. Non si tratta tanto di talento, quanto di avere una passione autentica e sincera per il cinema. Io mi sono fatto l’idea che per la stragrande maggioranza dei giovani voler fare cinema sia soltanto un modo per evadere la loro quotidianità. La maggior parte delle storie dei giovani che mi capita di leggere hanno in sottofondo lo stesso ritornello che parla di andarsene dal proprio paese e di finire da qualche parte al sole a bere per tutto il resto della tua vita. Tutta una questione di evasione dalla realtà: un bicchiere in mano, il tuo migliore amico accanto, divertimento e basta. L’amorino bello come unico problema. Poi per la legge dei grandi numeri, storie di questo genere riescono anche a vincere qualche concorso, e ovviamente un sacco di queste diventano film. Fateci caso, nella quasi totalità dei film che vedono dei giovani come protagonisti c’è sempre di mezzo un viaggio, una fuga da fare o da sognare. “My names is Tanino” di Virzì oppure “Liberi” di Tavarelli sono film che mi spaventano fin dal titolo. Il problema essenziale (la novità del presente) è che mai prima di oggi i giovani sono stati fatto oggetto di un'attenzione così pregnante e pervasiva. I nostri genitori sono stati molto più fortunati: il mondo degli adulti non li considerava proprio, questo lasciava a loro la libertà di fare le loro esperienze, di maturare idee, di misurarsi con la realtà e di considerare la loro crescita come un esercizio da esperire giornalmente. La sete di sapere. Sarebbe un po’ complicato in questa sede ad esempio analizzare il rapporto fra la conoscenza e la repressione sessuale: l'hanno fatto moltissimi studiosi... inutile ripetere qui, mi piacerebbe solo che noi giovani ascoltassimo i nostri genitori quando parlano della loro gioventù, a quanti splendidi film hanno visto, quanti romanzi hanno letto solo perché erano all'indice. La dolce vita di Fellini. Pasolini che si leggeva per le parolacce... poi ti accorgevi che diceva cose incredibili, oppure quello che nell'adolescenza circolava di nascosto a scuola, l'amante di lady Chatterly, le cui descrizioni esplicite sembravano un giornaletto porno.. poi leggendo ti facevi prendere dal bel romanzo che era. Oggi noi giovani non ne abbiamo bisogno: disponiamo della massima libertà che coincide col massimo controllo: perché siamo oggetti privilegiati del mercato e perché comunque in passato abbiamo fatto paura e continuiamo a farla, perché la stabilità sociale oggi passa per il consenso: più la società è ingiusta squilibrata, più il sistema politico è oligarchico, più avrà bisogno di potenti mezzi di convincimento di massa, non solo ma siccome oggi si ha la consapevolezza della intrinseca potenza degli ardori giovanili, nasce l'impegno non solo di organizzare il consenso, ma anche il dissenso. Oggi il mondo è pieno di linguaggio adatto ai giovani tutto è giovane, tutto parla ai giovani affinché venga blandita la loro naturale voglia di evasione e di sogno, con un profluvio di merci studiate ad hoc, con un'ideologia spicciola, mai così ridicolmente ed inanemente ribellista, fatta di una rivolta senza obiettivi e senza nemici se non il generico "mondo adulto" che, da parte sua, lancia gli slogan e segna i tempi di questa ribellione. Il sogno è a portata di mano: hai solo da accettare qualche piccola condizione: prima di tutto devi evitare di criticare e chiedere diritti: ogni diritto rivendicato è una mazzata alla tua libertà e alla tua autonoma crescita. Poi la politica non ti riguarda, come se le decisioni politiche non decidessero del tuo futuro. E da ultimo devi tener presente che il mondo dei giovani è costruito per una soave ignoranza. In pratica tutto ciò che riguarda la crescita interiore, la formazione di un individuo, tutto ciò che non è performance, e che non rende denaro, non esiste... stiamo parlando di fantasmi. Ma vi siete mai girati su quella montagna di disimpegno che è la cultura Hip Hop.. una rivoluzione da operetta, che non cerca obiettivi per l'incazzatura ma si bea nell'estetica dell'incazzatura. Ore di snocciolamenti di ciò che mi piace o mi fa incazzare. Sigle sui muri a caratteri cubitali per far sapere che ci sei e a mò di bandiere da samurai.. per un'estetica del banner asemantico. E' un decadentismo individualista che tracima su tutte le attività, gli interessi e l'impegno dei giovani. I giovani sono convintissimi che l’hip hop sia cosa loro, completamente avulsa dal mondo degli adulti, invece viene amplificata, riprodotta tipizzata da tutte le aziende che ci marciano e da tutti i media sostenuti dalle stesse aziende ed ha una resa politica eccezionale, dà ai giovani la sensazione della trasgressione, col brivido, magari, del fermo e della schedatura in questura, con il feeling della rivoluzione, mantenendoli invece entro l'alveo della più becera reazione. Ma vi siete mai avvicianti ad un Rave Party? Somigliano molto a come erano i nostri genitori, qualche piercing in più, ti pare quasi di essere ad una manifestazione del 68.. , più la musica possente sparata a megawatt, le immancabili pastiglie per stordirsi e caricarsi e niente, poi niente... però si scarica parecchia energia.. è rabbia che se ne va. Perchè queste manifestazioni sono accolte con così grande benevolenza (ad esempio da amministrazioni di destra). Non stiamo parlando di marginalità: l'altra settimana al rave di Bologna erano 150.000. Sono l'esatto pendant degli yuppies, impegnati nella gara della vita (la sola possibile in un paese neocapitalista) e si abbandonano alla voluttà del loro ruolo di sconfitti, piegati sulle proprie ferite. Si tratta solo di caricare lievemente il naturale spleen adolescenziale ed il giochino è fatto. E avremo generazioni saltate, fino a che qualcuno non libererà al vento una qualche bandiera da seguire che risponda invece alla naturale esigenza di fare, di divenire protagonisti, di esserci in un primato del pragmatismo. La cosa di cui sono più fiero in “Sottopressione” è che è piena di gente che si ingegna non per partire, per andare fuori, ma per restare “dentro”, anche se la realtà che li circonda è difficile.
Poi ecco, per un giovane inedito probabilmente la difficoltà più grande è quella di riuscire a farsi leggere, ma anche in questo caso, non so quanto possa essere utile prendersela con l’ignoranza e la mancanza di professionalità del mondo produttivo, anche perché da questo punto di vista, diciamo la verità, non è che in Italia il mondo degli sceneggiatori brilli particolarmente. In atteggiamenti di questo genere io ci vedo soprattutto una difficoltà a mettersi in discussione; il dubbio che non ti leggono perché hai scritto una cosa effettivamente illeggibile sembra non sfiorarli mai. Se ti chiami Muccino probabilmente non è importante, ma se ti chiami Bergamin forse devi sforzarti di riassumere la tua storia in un buon soggetto (che probabilmente è l’unica cosa che leggeranno), devi sforzarti di scrivere una sceneggiatura che sia bella anche da leggere, non puoi metterci dentro delle descrizioni piatte, il fatto che stai scrivendo per il cinema non deve trarre in inganno, le devi curare anche dal punto di vista letterario. Questa è una cosa che ho capito leggendo “Il tempo di morire” della Fornario. E’ l’unica sceneggiatura disponibile online che sono riuscito a leggere fino alla fine, ed è bellissima, perché la Fornario è riuscita a trasmettere anche lo spirito della sua (ottima) storia, lo stile ironico con la quale deve essere girata. Se non aveste già visto il film, potreste dire altrettanto anche delle sceneggiature dell’”Ultimo Bacio” o di “Santa Maradona”?

5. I tuoi progetti per il futuro.

Realizzare “Sottopressione”. Grazie al Sonar Film Festival ho già trovato un regista, Giovanni Robbiano, interessato a girare la mia storia. E sempre grazie agli organizzatori del Sonar la mia sceneggiatura verrà letta a settembre all’auditorium di Roma, un’ottima occasione per farla conoscere al mondo produttivo. Poi sono molto interessato ad un'altra iniziativa degli amici del Sonar, il laboratorio di sceneggiatura al quale spero davvero di poter partecipare assieme agli altri finalisti del concorso. Una possibilità davvero unica di crescere, di potersi formare professionalmente. Da qualche tempo mi sta girando in testa una nuova idea per una storia che mi sembra davvero buona, e questo laboratorio di sceneggiatura potrebbe permettermi di svilupparla. Con Sottopressione ho lavorato su un contesto che mi era famigliare, questa iniziativa del Sonar potrebbe essere l’occasione per imparare, da sceneggiatore, a sapermi muovere anche in contesti lontani dalla mia realtà.
 
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