AL DI LA' DEL LIMITE

di

Catia Chiavarini

SOGGETTO

“Il mio eroismo è consistito nel non lasciarmi morire” G.G.Marquez.


Leggo e rileggo questa frase. Perché io? Non mi sono mai considerato il migliore. Non sono bello. Sono scontroso, ombroso, a volte pure antipatico. Altri avevano più diritto di me. Sono solo di stoffa resistente, come dice mia madre. Adesso siedo davanti a questo meraviglioso panorama che mi riempie gli occhi, quando questi non sono troppo colmi di rum per rimanere aperti. E penso, penso…al nostro equipaggio composto di otto persone. Io mi chiamo Ruben…

Sono sempre affascinato da questo rompicapo che il mio amico Max d’Elia, (siamo quasi inseparabili), mi scarabocchia sulla tovaglia di carta paglia della trattoria dove mangiamo. Ma non riesco a risolverlo. Max se la ride, con quel suo sorriso cha fa impazzire le donne. Allora nove puntini, tre righe per tre file con tre punti ognuna. Li devo unire con quattro linee rette “senza mai staccare la matita dal foglio”. Lui afferma che non bisogna fermarsi all’apparenza. I limiti sono quelli che noi ci poniamo e non dobbiamo lasciarci ingannare. “Ti arrendi”? No, anche se tutto questo filosofeggiare mi ha fatto venire un gran mal di testa.

“Volta Scirocco” il nome della nostra barca a vela, leggera, in kevlar, da competizione, ma capace di attraversare l’Oceano Atlantico. Così l’ha progettata e costruita l’ingegner Gianni Velasco, per l’ambizione di vincere la regata degli alisei, dalla Liguria fino a Pointre a Pitre, Guadalupa e poi magari gareggiare in Coppa America. La partenza è fissata per il cinque novembre. Ci rimane tutta l’estate per rodare la barca ed organizzare l’equipaggio. Skipper sarà Max, una passione per la vela, come me, tanto da contare molte più ore di vita in mare, che a terra sulla piazza di paese. Questo nostro sentimento, risale a tanti anni fa, da bambini. Ci siamo avventurati in una vecchia villa che sapevamo disabitata e lasciata allo sfacelo. Il percorso era un intrico di rovi, rami e altri intoppi erbosi. Noi fingevamo di essere nella giungla. Io facevo strada. Alla fine di quel giardino incolto, su uno spiazzo di erba alta, come fosse un mare verde, una barca a vela in pessime condizioni, era stata dimenticata lì. Piegata su un fianco pareva navigasse, solenne, ma così triste,con la vela tutta bucata che sbatteva al vento. E noi lì incantati a guardarla. Ma dicevo della regata: Velasco, Max ed io. I primi tre cui s’aggiunge Adelmo. Lui e Gianni Velasco sono amici da tanto, entrambi sessantenni con lo spirito fanciullesco e il gusto della sfida. Così diversi! Gianni è il signore, fine nei modi, ricercato negli abiti, con la sua pipa profumata di buon tabacco. Adelmo il marinaio, lui il tabacco lo sputa, dopo aver troncato coi denti il consueto sigaro puzzolente. Un ex marinaio d’altura, ritrovatosi a fare il cuoco, ma pronto a partire per una qualsiasi competizione. Insieme con noi c’è anche Francesco, il dottore, che se vai nella sua corsia d’ospedale, al posto del corpo umano e parti anatomiche, ha tappezzata di foto d’imbarcazioni a vela. Mi sono sempre chiesto come mai la maggior parte dei medici ami questo sport, infatti in parecchi studi mi sono trovato ad ammirare foto di barche d’ogni tipo e nodi marinareschi. Chissà? Forse per sfuggire alla pesantezza del loro mestiere. Sì, stare in mare ti offre questa libertà. Francesco sarà il quinto dell’equipaggio. Una differenza fra me e Max c’è, e sostanziale. Lui è affascinante e piace alle donne, al contrario del mio modo scostante ed incapace con il sesso femminile. Ora questa sua spregiudicatezza in amore lo sta mettendo nei guai: Elena. La cui aurea magnetica attira i maschi, ma meno che mai Max dovrebbe lasciarsi sedurre. Perché Elena è la moglie di Pietro Morante, il sesto dell’equipaggio. Geloso, irascibile, ma sempre un amico. Chicco Cortesi invece da dove è saltato fuori? Un ragazzo poco più che ventenne, il più giovane del gruppo, dall’aspetto zingaresco, magro e testardo. Navigatore e tattico. Ci si è attaccato dietro e non ci molla più. Vuol far parte dell’equipaggio, ma Velasco è scettico sulla sua presenza. Chicco ha vissuto anni in California e rientrato in Italia, il suo scopo è salire sulla nostra barca. La possibilità gliela diamo con le regate estive, qui nel mare casalingo e si rivela molto abile lo ammetto, ma questo non basta per farmelo riuscire simpatico, con quella sua aria saputella. L’ottavo, ed inaspettato, sarà un giornalista sportivo, Fulvio Prati, che documenterà tutta la traversata, fino all’arrivo. Gli avvenimenti però, non filano lisci come quest’elenco di uomini pronti. Il giorno antecedente la partenza, un fatto turba e incide sul nostro viaggio.

Tradire Pietro e sfidare Max, adorato dalle altre. Per Elena all’inizio un gioco. Usarlo a letto e poi lasciarlo. Una lezione per fargli perdere quel sorriso beffardo e distaccato. Ma la botta nei denti l’ha avuta lei. Volta dopo volta, scopata dopo scopata, la donna giura sarebbe stata l’ultima. Ma volta dopo volta, lei si fa prendere da quell’uomo così simile a lei. Fino al giorno prima della partenza, s’incontrano per un ultimo amplesso. Elena gl’ infila al polso un braccialetto prezioso, per ricordarsi di lei durante il viaggio e poi gli sussurra un” ti amo”. Max è confuso e vigliaccamente le volta le spalle, lasciando in sospeso il sì o il no che lei s’aspetta come risposta.

Cazzo Max, sei proprio un figlio di puttana! Con la moglie di un amico, con cui devi passare quindici giorni gomito a gomito? Io e lui siamo faccia a faccia e scopro la tresca. Finisce che litighiamo di brutto. Ancora pieno di rancore, il giorno dopo non gli rivolgo parola e inizia così, in questo clima teso il primo giorno di navigazione. Max è svogliato e disattento, e compie una manovra intentata. Così ci vediamo costretti, per prendere più vento, ad allontanarci in mare aperto. Navigare sottocosta non ci dà più speranza di vincere la prima tappa, le Baleari. Io gli sputo in faccia quello che penso su di lui come skipper in quel momento. Gli altri sono sorpresi. Noi due siamo sempre andati d’accordo in barca.

Un tuono in lontananza e dei bagliori. Tutti su a tarda notte. Un temporale si scatena sulla terra ferma. Ad occhio e croce, dovremmo essere al largo delle coste francesi. Le onde il terzo giorno di navigazione sono molto alte, con lunghe creste a criniera che vacillano, poi precipitano rotolando. Il mare appare biancastro. Il vento polverizza le onde. Visibilità ridotta. Issiamo il fiocco piccolo, quello da tempesta. Il bollettino meteorologico della guardia costiera annuncia violente raffiche di “mistral”, vento che soffia da terra tipico della Francia meridionale. Settanta nodi e mare in burrasca. La randa è abbassata. L’organizzazione di regata da’ l’opportunità a tutti di ritirarsi. Decidiamo di proseguire, nonostante una minoranza discorde. Non sappiamo che l’imponderabile ci sta venendo incontro. Scende la sera.

Max è pensieroso. Gingilla fra le dita il braccialetto. Ascolta Pietro che comunica col VHF. Dall’altra parte c’è Elena. Per un incontrollabile istinto prende il microfono all’uomo. Pronuncia un solo “sì anch’io”, sì alla domanda di Elena prima della partenza. Tutto ciò incuriosisce il geloso Pietro, che esige una spiegazione. Max sale in coperta eludendo la domanda.

Vedo salire entrambi e capto una certa aria, tesa come questo vento. Penso “ci siamo”. Da qui infatti gli eventi precipitano. Max e Pietro s’affrontano, sotto l’aria esterrefatta di tutti. E viene fuori la verità. Cosa c’è fra lui e la moglie? Ascolto stupito, delle parole che non avevo mai udito da Max, io che lo conosco meglio di tutti. “L’amo, mi sono innamorato della tua donna!”. Pietro sembra incredulo, poi la sua reazione è violenta, s’avventa sull’altro, preso da un cieco furore. La barca sbatte, prende un vuoto. Delle onde ci raggiungono. Una più invadente delle altre c’investe. Quando il turbine passa, Max è stato scaraventato in acqua. Non ci penso due volte e prima che gli altri possano fermarmi, mi tuffo in questo buio inferno. Tutti urlano. Alla fine riesco a raggiungerlo e a trarlo in salvo. Lo riabbraccio felice, dimenticando tutti i rancori. Ci portano sottocoperta. Adelmo si prende cura di noi, mentre gli altri sopra tentano di governare la barca. E mentre sono qui, febbricitante e sonnacchioso, un boato raccapricciante mi risveglia. Ogni ordine è sovvertito. Siamo sbattuti in qua e in là. Mi faccio un brutto taglio alla fronte. La barca si rovescia.

Il Volta Scirocco naviga col vento in poppa e cavalca veloce le onde che lo sospingono da poppa. Inoltre là dove i due mari s’incrociano, il Mediterraneo e l’Atlantico, le onde possono arrivare anche da altre direzioni. Chicco urla. Un’onda gigantesca di circa una decina di metri, si forma al lato della barca a prua e va verso di loro. Un boato. La concitazione degli uomini si raggela in incredulità contro quell’onda enorme. L’onda anomala. La barca è sospesa. Aspetta che l’onda gli vada addosso, prendendola nel suo cavo e spazzandola via.

La barca si rovescia inclinandosi di lato. Non affonda. Rimaniamo col fiato sospeso. Cos’è accaduto? Forse abbiamo perso il bulbo che garantisce assetto alla barca, ma il boato è di un’onda, quella che ci ha investito. Gli altri? Riusciamo ad individuarli, aggrappati là fuori in quell’inferno. È terribile. La prima perdita è il giornalista che è stato trascinato in mare. Velasco ha preso una brutto colpo sul capo e sta male. Ci rintaniamo in questo rifugio, per quanto ancora sicuro? Purtroppo abbiamo perso i contatti via radio, la zattera gonfiabile è pressoché irraggiungibile, stivata nel suo gavone, ora sommerso. Peggio di così! Ho unito insieme taniche e parabordi fissandoli con delle cime, per farne un mezzo di soccorso improvvisato, non si sa mai. Sono passate diverse ore, abbiamo lanciato i razzi, nessuno ci ha localizzati. In realtà i soccorsi non sono ancora scattati, per via del mal tempo. Ma ora questo non lo sappiamo. Ho un brutto presentimento rintanato nelle budella. Per ore non accade nulla, poi tutto insieme. Con un suono sinistro la barca si torce. La coperta si strappa ed imbarchiamo acqua. Da allora niente sarà più come prima. Noi usciamo furiosamente, aggrappandoci al galleggiante fatto di taniche. Troppo tardi ci rendiamo conto che Adelmo e Gianni, deliberatamente non ci hanno seguito. Decidono di affrontare la medesima sorte insieme. Con un grido di impotenza, li vedo affondare via, spinti in basso dalla forza dell’acqua.

È l’alba qui sull’oceano. Siamo rimasti in cinque. Pietro, Max, Chicco, Francesco ed io. Ci siamo gettati sui parabordi, sulle taniche, aggrappati vicini in questo mare grosso, gamba contro gamba. Quello che entra nei polmoni è acqua nebulizzata. Si fatica a respirare. Un freddo boia. All’orizzonte niente di niente. Li vedo i miei amici, sempre più demoralizzati. Il primo a mollare è Francesco, nonostante i nostri incitamenti. Egli annaspa e con un ultimo rantolo chiude gli occhi. Lo teniamo stretto per non abbandonarlo alla corrente. Accettarne la morte è come accettare la morte di tutti. Le ore passano e dei soccorsi nessuna traccia. Le mani ora servono a noi, per tenerci in vita e siamo costretti a lasciare andare il corpo di Francesco. Poi perde la testa Pietro. Se la piglia con Max e c’è una debole disputa. Accidenti non potete trattenere le energie per qualcosa di meglio? Quello che fa Pietro, mi rimarrà sempre impresso nella memoria. Un gesto cattivo, vendicativo alla mercé di Max. Deliberatamente si distacca dalla zattera. Sono sicuro che è così. Lui è forte, allenato, va in palestra abitualmente e sono sicuro che gliel’avrebbe fatta, che avrebbe portato a casa la pelle. Invece vuole compiere quest’ultimo gesto assurdo, lasciandosi portare via dalla forza dell’acqua. Max perde la testa e tutti e tre cerchiamo di trascinarci con la zattera verso Pietro che piano, piano scompare alla vista. Ora mi tocca combattere con il senso di colpa di Max. Lo stringo forte. Siamo rimasti in tre. Chicco è cianotico e batte i denti. Ci racconta del padre, disperso in mare. Appassionato velista, il suo sogno era di compiere il giro del mondo in barca a vela, che è anche il sogno di Chicco. A lui manca tanto. Scendono le lacrime che mi serrano lo stomaco. Poi si riprende fa lo spiritoso, dice che ha fame. Che mangi allora! Tiro fuori dalla cerata, con gran fatica, quello che rimane di una cartolina che avevo pensato di spedire a mia madre. La divido in tre pezzi e comincio a masticare il mio. Porgo a ciascuno la sua parte come fosse un panino. I miei amici sono perplessi. Alla fine tutti mastichiamo la carta come fosse chewing gum. Ci mangiamo Santa Margherita Ligure! Il pensiero ci fa ridere.

Il vento è calato. Mi sembra di essere da un’eternità in acqua. Non sento più le mani le gambe. Poi Chicco scivola via! Sussurra un “mamma mi dispiace…”, la corrente ci divide. Vediamo il corpo trascinato via. Uno spettacolo già visto. Ho le mani assiderate, la voce roca e sicuramente una broncopolmonite in corso. Tremo. Quando cazzo arrivano? Max ed io siamo avvinghiati i nostri fiati si mischiano. Ci siamo, lui comincia a vaneggiare, come hanno fatto anche gli altri, uno alla volta, dopodiché mollano. Tra una parola e l’altra pronuncia il nome di Elena. Sono distratto e Max per poco mi sfugge e con lui la zattera, nostra unica salvezza per ora. Decido di caricarlo sopra. All’aria sarà più freddo e allora mi tolgo la giacca cerata e lo copro. Lui vuole lasciarsi andare, è stanco, ma non lo permetterò.

Mi arrendo. Al gioco intendo, al rompicapo dei puntini. Max dammi la soluzione. Glielo ripeto ancora e ancora. Alla fine lo vedo alzare il capo con gran fatica. “Devi mandare… la mente fuori…fuori dai limiti, lo spazio…non esiste…”. Non capisco, sono al punto di prima. Ma almeno ho bucato la sua apatia.
Sono in uno stato di semi incoscienza, le braccia buttate su Max. Il suo corpo m’abbandona. No, non devo lasciarlo andare! Non riesco a muovere più un muscolo. Poi mi sento sollevare e non percepisco più il contatto dell’acqua fredda. Ecco sono morto. Sono disteso su una superficie dura. Legno. Odore di pesce. Riesco ad aprire appena gli occhi. Sono disteso in mezzo a reti da pesca. In alto vedo passare uno stormo di gabbiani. Sento una presenza accanto. Mani possenti depongono Max vicino a me. Il mio raggio visivo è limitato. Gli occhi del mio amico mi cercano. Le nostre mani si stringono debolmente. Credo che ci abbiano salvati, non siamo morti. Sono stanco, ho sonno. La vista mi s’annebbia e il viso preoccupato di un uomo, un pescatore, chino su di me è l’ultima cosa che vedo.

Mi sveglio di botto, con la sensazione di soffocare. Il sole rovente batte sui vestiti. Sono disteso sulla sabbia e mi alzo di scatto a sedere. La testa mi duole, mi tocco la cicatrice ormai vecchia di un anno, dovrei proteggerla ma me ne frego, e guardo l’orizzonte di questo mare turchese. Sono a St. Barth, una rigogliosa isola tropicale delle Piccole Antille. È mattina, incrocio qualche turista e gente del luogo. Mi dirigo zoppicante, verso casa mia, un piccolo bungalow sul mare. Non ho fame, ma una sete folle. Tracanno una birra. Guardo la bottiglia del rum e me la porto in veranda, dove mi distendo sulla sedia in bambù. Con gli occhi chiusi a fessura da questa luce accecante, bevo, guardo il mare, poi le nuvole, il mare, bevo……

Sono in un letto di un ospedale francese e capisco di essere scampato al naufragio. Mia madre mi veglia. Ho avuto la febbre alta, ho delirato, alla fine gliel’ho fatta, sono vivo. Il braccialetto di Max, qualcuno me l’ha allacciato al polso, quello libero da flebo. Allora anche il mio amico ce l’ha fatta!

Non ho appetito. Anche stasera andrò al solito locale, dove mi berrò i soliti waikiki. Il succo d’arancia apporta nutrimento e poi il buon sapore del rum. Pieno d’alcol arrivo in riva al mare e la brezza oceanica mi da’ una sferzata che lo stomaco mi si ribella. Cado a terra. Mi sveglio il mattino dopo, di botto con la sensazione di soffocare. Come quasi tutte le notti, rimangono lì dove crollo, per risvegliarmi in pieno sole. Sono un alcolizzato, io che non ho mai toccato neanche un goccio di vino, prima. Bevo per non sentire questo maledetto vento, che mi sibila continuamente nelle orecchie. Guardo verso l’orizzonte. Non ci sono vele. Solo un piccolo idrovolante che s’abbassa sulla costa.

Elena con passo deciso e controvento entra nell’ospedale francese. Preme il tasto e l’ascensore scende. Piano -1, quello della camera mortuaria. Un gendarme all’ingresso non la fa entrare, se non è una parente. L’odore dei fiori è pungente le provoca fastidio alla bocca dello stomaco. S’appoggia ad un bancone ed in un contenitore nota fra altre cose, il braccialetto, il suo regalo per Max. L’afferra e scappa. Corre via verso la scogliera per gettarlo in mare. Poi ci ripensa. Elena apre la porta di terapia intensiva dov’ è ricoverato Ruben, ancora in stato di incoscienza. Delicatamente gli allaccia il bracciale al polso.

L’idrovolante è ammarato in uno specchio d’acqua dell’isola di St. Barth. Il portello del velivolo si apre e un paio di scalcinate scarpe di tela da vela di un ragazzo, toccano il fondo di una barca venuta a prenderlo. Chicco scende e ammira il lussureggiante paesaggio tropicale.

Sento toccarmi la spalla e sussulto. Mi sono assopito sulla sedia di bambù, all’ombra della veranda. Apro gli occhi e ho davanti a me Chicco. Un senso di pudore per lo stato in cui sono, m’invade. Come hai fatto a trovarmi? Mi sventola sotto il naso la cartolina di St. Barth che ho spedito un mese fa a mia madre. Abbiamo il medesimo pensiero, per quella che ci siamo mangiati, là in mezzo a quell’inferno e sorridiamo entrambi.

Volevo stare un po’ tranquillo…insomma…la stampa, la curiosità della gente, la televisione…gli unici scampati al naufragio. In fondo a me e a Chicco è toccato lo stesso destino. Lui è stato forte come me in mare ed in più lo è stato dopo, sulla terra, fra gli uomini. Però io non riesco a superare i sensi di colpa di essere ancora vivo, in più inutile, fallito. Non sono più un velista, né voglio esserlo. Nessuno deve provare pena per me. Lo so perché Chicco è qui, non solo per farmi un saluto. Mi dispiace ma il suo viaggio è andato sprecato.

A forza di vivere solo, senza alcuna compagnia, non mi accorgo immediatamente che Chicco è seduto vicino a me, sugli scalini della veranda, a tarda notte. Io sono insonne, lui anche. Fa un caldo appiccicoso. Le pale del ventilatore ronzano. Stanotte cerco di resistere e non vado ad ubriacarmi, per sfuggire ai fantasmi. A loro, i miei compagni: Adelmo, Gianni, Pietro, Francesco, Fulvio e soprattutto a lui, Max, il mio migliore amico. Nomi che non pronuncio più da un pezzo. Non sono uscito. Meglio così, perché Chicco mi racconta una storia.

Grosse bolle d’aria accompagnano la discesa di Chicco verso il fondo del mare. L’acqua è limpida e lui apre gli occhi. Non è affogato, almeno non ancora. Avverte di non essere solo là sotto. Un protettivo abbraccio lo avvolge. Un’altra figura umana. Chicco riconosce il padre defunto che lo trasporta di nuovo su e si rannicchia contro di lui, spinto verso l’alto sempre più, fino a essere nell’elemento a lui necessario per vivere: l’aria. Chicco è in stato confusionale, ha dei dolori in tutto il corpo, come si fosse strisciato continuamente contro qualcosa. Raggomitolato su uno scoglio che si erge dal mare, ferito in faccia e sulla mani, è così che lo scorgono dall’elicottero gli uomini del soccorso. Uno stormo di gabbiani vola basso. Solo una leggenda di mare gli dico. Una bella leggenda di mare.

“Quando si cade da cavallo, la prima cosa da fare è risalirci subito”. Con queste parole Chicco si congeda da me. “Vuoi dire che mi devo dare all’ippica?”. È la mia amara risposta. Lui mi guarda serio. Il piccolo idrovolante lo aspetta. “Come serro le redini con questa?”. Pudicamente gli mostro la mano destra, monca delle tre dita centrali. Me le hanno amputate perché si erano assiderate durante il naufragio, il sangue non scorreva più, erano secche, morte. Un altro segno, come le gambe che non mi reggono più tanto bene e zoppico. Egli mi risponde tranquillamente di usare l’altra mano. Perché limitarsi e non andare al di là della soluzione più ovvia? Mi dispiace se il suo viaggio è stato inutile. Addio! Rientro col mio passo scalzo ed incerto dalla spiaggia, con una canna per bastone. Penso ad un’altra persona: Elena.

A un mese dalla tragedia lei ed io c’incontriamo un po’ imbarazzati. Elena è sola e io potrei consolarla. Solo ora riesco a essere consapevole di una cosa. Me la sono presa con Max, per la loro relazione. E non era per Pietro, come credevo, ma per me stesso. Era gelosia e non l’ho mai ammesso. Per Max per Elena non lo so. Tiro fuori il suo bracciale e glielo porgo. “C’è stato un errore. L’hanno infilato al mio braccio”. Sono stupito nel sentire che me l’ha lasciato lei, quando ero incosciente a letto. L’ha amato Max, amato veramente. Dice questo e le brillano gli occhi. Sa che soffro molto. Io mi vergogno dei miei sentimenti nei suoi riguardi. Non lo so se ho fatto tutto il possibile per Max. Le lascio scivolare in mano il bracciale e me ne vado. Per sempre, da tutti.

Mentre l’idrovolante vola a bassa quota e Chicco mi saluta dall’interno, mi ronzano in testa le sue ultime parole “…al di là della soluzione più ovvia, che non sempre è quella giusta”. A queste si sovrappone la voce di Max “Lo spazio non esiste. Manda la mente fuori dai limiti”. E lo risolvo. Il rompicapo. Uso la canna come penna e bucherello lo schema sulla sabbia dura. Le quattro linee rette non si arrestano, entro i confini dei punti, ma devono proseguire al di fuori dei limiti del quadrato. Allora senza mai staccare la matita dal foglio riesco a chiudere lo schema. Mi sento meglio e per la prima volta riesco a piangere quelle lacrime che s’erano anch’esse assiderate là, nell’oceano.

La barca a vela in legno è ormeggiata lungo la banchina della darsena, nella baia di San Diego, California. Chicco ci lavora dentro, attento. Rimette a nuovo l‘imbarcazione di suo padre, andata quasi distrutta dopo il naufragio. Il suo giro del mondo a vela. Quando mi vede lì fermo, proprio non se lo aspetta. Mi fa un cenno interrogativo “Come mi hai scovato?”. Sventolo la cartolina raffigurante la baia di San Diego. Al limite ci mangeremo anche questa città.

FINE

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