SOTTO PRESSIONE

di

Fulvio Bergamin

TRATTAMENTO

Nonostante tutto mi hanno fatto studiare.
A scuola ero una schiappa, ma a fare i temi ero bravissimo. Ricordo lo stupore dipinto sulle facce dei miei compagnucci tutte le volte che prendevo un otto. Non riuscivano a capire come ci riuscissi, tutte le volte, a prendere otto nel tema, io, che ero solo, e sono ancora, una schiappa discreta. Allora parlavano di naturale predisposizione per la scrittura, ma sapevamo bene tutti quanti che non era affatto così.
In realtà la ragione era un'altra: mentre loro si sforzavano di scrivere la cosa giusta io mi sforzavo d'essere divertente. Non che riuscissi ad esserlo veramente, divertente. Ma il professore aveva l'aria di uno che passava le serate sul divano sgranocchiando pollo davanti alla tv e allora questo mio sforzo lo apprezzava sempre.
Avevo sempre desiderato scrivere un raccontino che parlasse di tutte quelle persone che passavano la vita cercando di scrivere la cosa giusta, di dire la cosa giusta o di trovare il momento giusto per dirla, di trovare la donna giusta, le scarpe giuste, gli occhiali giusti, la musica giusta, la casa giusta, il lavoro giusto. Ma ogni volta che prendevo la penna in mano, mi ricordavo di non saper scrivere. Non era il mestiere per me. Il lavoro giusto. Se crescevi nel mio paese, a Valdagno, il lavoro giusto era uno solo: all'industria Barzotto, una fabbrica di pannolini.
L'industria Barzotto si ergeva solenne sulla valle e sulle centinaia di case che le stavano attorno come dei funghetti ai piedi di una quercia.
La Barzotto era per Valdagno quello che la torre Eiffel era per Parigi: la potevi vedere da ogni posizione. La mattina, quando mi alzavo, guardavo fuori dalla finestra e io sapevo che ero uno di quelli che avevano trovato il lavoro giusto. Non facevo mai colazione. Mi svegliavo, mi lavavo i denti, mi chiudevo in macchina, mi dirigevo fuori dal centro ed imboccavo la tangenziale. Mi immergevo nel traffico delle sette. Con le mani fredde, ne fumavo una dietro l'altra, come invasato, non sentendone nemmeno il sapore, e cambiavo continuamente corsia, senza ragione, come per cercare ossigeno e non rimanere soffocato.
Poi svoltavo a destra.
Mettevo in bocca una caramella e gettavo la sigaretta e, quando svoltavo a destra, c'era questa strada molto lunga che portava all'industria Barzotto.
Senza file ai semafori. Senza strombazzi. Senza incroci senza ingorghi. Senza lamiere accartocciate sui bordi. Si poteva vedere il sole, basso all'orizzonte, esattamente come negli spot delle automobili, dove non c'è mai traffico.
Questa strada la percorrevo tutti i giorni per andare a lavorare, questa strada molto lunga che portava all'industria Barzotto. Questa strada dove non c'era mai traffico. E quando la percorrevo io mi sentivo come se qualche bastardo mi avesse improvvisamente proiettato dentro ad uno spot della Mercedes, guardavo il sole basso all'orizzonte e la tristezza cominciava a scorrermi addosso; scendeva dalla fronte, passava per il collo e cincischiava sull'ombelico, attraversava lo stinco e finiva dritta dritta sul piede, che diventava sempre più pesante sull'acceleratore.
Non vedevo mai nessuna macchina davanti a me.
Né dietro.
C'erano mattine che non riuscivo a sopportarlo. E sbandavo; sull'asfalto chilometri di deserto, ma durava solo qualche attimo questo bisogno di chiudere gli occhi.
La morte me l'ha mostrata mio padre da bambino.
E in quegli attimi in cui guidavo con gli occhi chiusi, vedevo una vecchia distesa sul letto e mio padre che le accarezzava il viso mentre mi guardava
la nonna è morta ripeteva
la nonna è morta
lo diceva sorridendo
come se si trattasse di una cosa buffa
come se fosse scivolata sulla neve
e a me scappava da ridere
la nonna è morta
quanto deve essere costato a mio padre dirmelo sorridendo.
Venne mia zia ad afferrarmi per un braccio e a trascinarmi fuori. Non ho mai saputo cosa avesse fatto mio padre subito dopo. Era scoppiato a piangere? Si era ubriacato? Aveva preso mia madre e l'aveva portata in camera a fare l'amore? Avrei dovuto pensare a questo negli attimi in cui guidavo con gli occhi chiusi. Ed invece pensavo che la morte non mi faceva paura.
Mi facevano paura le persone che dicevano di non avere mai tempo.
Il mio capo ad esempio mi faceva paura. Del resto come si fa a non avere paura di un tizio che entrava in ufficio alle sette di mattina e non usciva mai prima delle dieci di sera. Una lagna continua: "Non ho tempo per te. Non ho tempo per mangiare e neanche per pisciare non ho tempo per ammalarmi non ho tempo per andare a caccia per andare al cinema non ho tempo per la mia famiglia. Non ho abbastanza tempo per mia figlia."
Una mattina non venne al lavoro; nella fabbrica aveva già cominciato a girare la voce che fosse morto. Beh, non era morto. Era uscito di strada con la sua mercedes nera, si era schiantato in un fossato, ma non era morto. Era vivo e si sentiva indispensabile, e vaffanculo convalescenza, dieci giorni dopo era di nuovo in ufficio, tutto bendato, dalle sette di mattina alle dieci di sera, e mi venivano i brividi tutte le volte che mi parlava: si era portato via mezza faccia, ma non aveva tempo per mettersela a posto.
Anche il suo ufficio mi faceva venire i brividi; aveva appeso su una parete tutta una serie di quadretti con dei motti famosi. C'era Voltaire con il suo "meglio stare zitti e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni dubbio". Ma c'era anche IL TEMPO E' DENARO. Eppure quest'uomo che diceva di non avere mai tempo aveva invece molto denaro. Credo che per mandare avanti tutta la baracca si beccasse almeno centocinquanta milioni all'anno. E se si contavano anche i premi produzione poteva superare i duecento. A volte ci pensavo. Io con duecento milioni avrei potuto comprare... sarei potuto andare...ehm, che cosa ci avrei potuto fare con duecento milioni? Non ne avevo la più pallida idea! Non sapevo che farmene di duecento milioni, perciò eccomi di fronte al punto cruciale della mia esistenza, al nocciolo: ERO UN COGLIONE.
Essere un coglione di per sé non sarebbe una cosa molto grave. La cosa peggiore che ti può capitare è di dire delle coglionate, e si può anche diventare presidenti del consiglio dicendo delle coglionate. Il problema dell'essere dei coglioni è che gli altri coglioni ti riconoscono subito; cominciano a girarti attorno, sono come un branco di lupi, ti annusano, tu sei uno di noi. Carlo Caneva ad esempio non riuscivo proprio a levarmelo di torno. Tutte le volte che entravo in fabbrica me lo ritrovavo fra i piedi. Un tempo era anche stato un buon velocista dilettante, ma ora era solo un ammasso di lardo. Usciva solo per andare al lavoro. La leggenda voleva che Carlo Caneva, nonostante i suoi trentanove anni, per andare alla cena aziendale dovesse chiedere il permesso alla mamma. Che spesso diceva di no.
Carlo Caneva faceva l'operaio, part time per via di non so bene quale menomazione fisica, e se lo incontravi nello spogliatoio ti mostrava con orgoglio una lunghissima cicatrice sul costato, segno indelebile di non so bene quale operazione chirurgica. D’estate al lavoro indossava sempre quelle magliettine metal con i cantanti che facevano le boccacce, ma grazie a dio era caldo e se le toglieva subito. Così poteva attirare le donne mostrando il fisico. E la splendida cicatrice di guerra, ovviamente. Carlo Caneva era ancora vergine e me lo veniva a dire tutte le volte che mi incontrava. Se mi andava bene.
Se mi andava male mi raccontava delle seghe che si faceva, e mentre me lo raccontava mimava i gesti, e mentre mimava i gesti lui pensava d'essere divertente, e se non ridevi pensava che ce l'avevi con lui e ti mostrava il pugno. Se invece ridevi continuava a mimare. Insomma non riuscivo proprio a neutralizzarlo.
CHE VOGLIA DI SCOPARE CHE HO mi diceva, e io sognavo di dargli la risposta giusta, la risposta definitiva. Ma non ci riuscivo. Io che avevo fatto carriera dando le risposte giuste: Come va? Bene capo (cinque punti); ti piace la caccia? Mi piace capo (cinque punti); hai spedito tu in Spagna quegli ordini che andavano in Turchia? No capo (cinque punti), è stato Guiotto (cinque punti); mi lecchi un po’ il culo? Certo capo (cinque punti); ti piace questo lavoro? Spero di farlo tutta la vita capo (cinque punti).
I miei amici avevano un'idea piuttosto chiara a proposito di un lavoro di successo: un telefono e una scrivania. Io avevo impiegato cinque anni per totalizzare abbastanza punti da conquistarmi un telefono e una scrivania ed ero l'unico del gruppo che ci era riuscito.
Gli altri continuavano a passare il tempo in biblioteca a preparare esami e a domandarsi come faceva la gente che non aveva un telefono e una scrivania a lavorare senza impazzire. Beh, io lo sapevo come ci riusciva.
Comandavo una squadra di operai e avevo avuto modo di osservarli a lungo; la loro era una routine fatta di sveglie regolate ad orari assurdi, di pranzi in pieno pomeriggio e di cene a mezzanotte. E di gesti piccoli, senza senso: riempire un'asta di coni, spostare un carrello da una parte all'altra, raccogliere i pannolini in un cesto, raccogliere i pannolini in un cesto, raccogliere i pannolini in un cesto, otto ore al giorno. In una parola: la vita dura.
Si trattava solo di trovare un modo per non pensarci, per riuscire a resistere.
Ognuno di loro aveva messo a punto un sistema. Bicego, ad esempio, mentre lavorava indossava le cuffie del walkman e teneva il volume della musica quasi al massimo. Questo era di gran lunga il sistema più usato dagli operai. Eros Ramazzotti contribuiva ogni giorno alla salvaguardia della salute mentale di migliaia di persone. Zanuso però preferiva il vino. Aveva da poco compiuto vent'anni, arrivava sul posto di lavoro nascondendo una bottiglia e appena aveva la sensazione di non farcela, si beveva un paio di bicchierini e aspettava che il vino gli andasse alla testa. E così riusciva a terminare il suo turno. Ultimamente però avevo notato che i bicchierini erano diventati tre.
Fra le donne era molto diffuso l'uso della vitamina C. Adriana Zonta però sembrava preferire le anfetamine; era stata assunta con contratto a termine e per guadagnarsi la riconferma doveva mettersi in mostra e cercare di fare di più delle altre.
Martina la riconferma invece se l'era già guadagnata, ma voleva fare l'attrice; aveva letto le interviste di migliaia di attrici e tutte, nessuna esclusa, avevano prima o poi detto la stessa frase: "Sono stata fortunata". Così Martina non si preoccupava di studiare recitazione, continuava a lavorare in fabbrica, che tanto era solo questione di culo e prima o poi sarebbe arrivato il suo momento.
E poi c'era Fanton, detto il politico, ma solo perchè arrivava in fabbrica con qualcosa da leggere. Il suo sistema consisteva nel pensare continuamente a qualcosa di peggio del lavoro che stava facendo, e per lui, operaio da più di trent'anni, delegato sindacale, c'era solo una cosa peggiore del suo lavoro: il sorriso di Berlusconi; lo terrorizzava, sembrava quello di uno squalo.
Ma fra tutti, il sistema più curioso era quello messo a punto da Riccardo Priante.
Il suo lavoro, come quello di tutti gli altri, consisteva nel raccogliere in un cesto i pannolini che la macchina gli sputava fuori. Non doveva fare altro, quando aveva riempito il cesto ne andava a prendere un altro. Per cercare di rendere tutto questo più interessante, si era inventato una specie di sfida con sé stesso: lui tratteneva il respiro e contava quanti pannolini riusciva a raccogliere senza respirare. Nel giro di un anno era passato da sessanta a novanta pannolini e contava di migliorare ulteriormente il record aumentando la velocità della macchina. Vederlo in azione era uno spettacolo, sembrava Charlie Chaplin, le braccia a mulinello, la faccia rossa e gonfia per lo sforzo.
Tutta questa gente era avvinghiata al proprio sistema come un koala alla propria pianta di eucalyptus. Non avevano altre difese. Cosa sarebbe successo a Fanton se Berlusconi avesse smesso di ridere? E Zanuso, che avrebbe fatto Zanuso se tre bicchieri di vino non gli fossero più bastati per terminare il suo turno? Quanti bicchieri giornalieri poteva arrivare a reggere il suo fegato? E l'udito di Bicego? Quanto poteva reggere ancora Eros Ramazzotti? C'era per ognuno di loro questa sorta di limite oltre il quale si affacciava lo spettro dell'esaurimento nervoso. Riccardo Priante raggiunse questo limite quando arrivò a quota centonove pannolini. Ci provava ogni giorno ma non riusciva proprio ad arrivare a centodieci. Non bisognava essere psicologi per capire che quel ragazzo era depresso. Una mattina cadde a terra, in lacrime. Non riusciva più a lavorare.
Il medico gli diede quaranta giorni di malattia. Quando tornò non si reggeva in piedi, barcollava. Faceva fatica anche a parlare. Lo psichiatra aveva deciso di curarlo imbottendolo di psicofarmaci. La madre al telefono mi supplicò di cercare di farlo lavorare, che gli avrebbe fatto bene, che se avesse continuato a passare tutto il giorno in casa non sarebbe mai migliorato. Piangeva, la madre. Non la capivo, Riccardo si era ammalato per via del lavoro, e ora quello stesso lavoro lo doveva guarire.
Gli altri operai cominciarono presto ad evitarlo, avevano smesso anche di rivolgergli la parola. Riccardo li spaventava. Erano così patetici: la maggior parte di loro sognava cose come la fidanzata figa, o la macchina sportiva. Avrebbero continuato a girare con una Fiat Uno tutta la vita, tuttavia guardavano con sospetto tutti quelli che sognavano cose diverse, o quelli che, come Riccardo, sembravano non sognare più.
Una mattina il capo mi convocò nel suo ufficio. Mi fece accomodare e mi guardò per un po', in silenzio, mentre accarezzava Giuliano, il suo gattone: "Nel tuo reparto la produzione ha subito un calo molto vistoso nell'ultimo mese".
Non sapevo se dovevo rispondere.
La cosa più difficile del mio lavoro era capire quando il mio capo era incazzato. Voglio dire, uno che al posto della faccia ha la maschera di un mostro uscito da qualche film dell'orrore sembra sempre incazzato.
"Cerca di risolvere il problema alla svelta".
Scossi nervosamente il capo dall'alto in basso per annuire, mi alzai velocemente dalla sedia e me ne andai. Non ero riuscito a pronunciare una sola sillaba. Ma sapevo bene quale fosse il problema: Riccardo Priante.
Rimasi a guardarlo per più di mezzora, mentre lavorava, affascinato dalla sua lentezza. Per molto tempo era stato uno dei nostri operai migliori e ora non riusciva nemmeno a entrare nello spogliatoio senza riempirsi di calmanti.
Tornai nel mio ufficio, appoggiai i gomiti sulla scrivania e presi la cornetta del telefono in mano. Composi il numero del mio capo. Riuscivo a trovare il coraggio di parlargli solo al telefono, quando cioè non gli vedevo la faccia.
"Capo.."
"Hai risolto il problema?"
"Dobbiamo assumere un'altra persona."
"Ancora? Ogni mese si licenzia qualcuno. Tutti cresciuti nella bambagia, non è possibile. Nessuno che si adatta."
"E' per via di quell'operaio, Priante. Gli dobbiamo affiancare qualcuno. Gliene avevo già parlato, gli psicofarmaci che prende gli rallentano i riflessi, non può sostenere certi ritmi di lavoro"
"Beh, mandiamolo via. Fatti portare le domande di assunzione e cerca di trovare in fretta una persona valida. Anzi, aspetta, devo aver da qualche parte quel nominativo che mi ha dato la sorella dell'amica di mia cognata.."
"Ma la madre dice ch.."
"Me ne frego di quello che dice la madre. Non siamo una clinica. Siamo una fabbrica. Se quello lì non è in grado di lavorare se ne deve andare. Lo devi stancare..".
Priante era stato sempre presente al lavoro, non aveva mai combinato guai. Era solo diventato molto, molto, molto lento. Ma questo non poteva essere certo motivo di licenziamento, perciò si doveva trovare un modo per costringerlo a lasciare il lavoro. Stancare, in gergo, significava per l'appunto "rendergli la vita impossibile".
Non mi era ancora capitato di dover stancare qualcuno, ma l'avevo visto fare diverse volte, e sapevo come ci si doveva comportare; fase A fase B fase C.
FASE A: il torello.
Il mattino seguente Priante trovò il suo posto di lavoro occupato da un altro operaio. Rimase immobile, per un po’, a fissare l'altro che lavorava. Poi arrivai io: "BEH, NON HAI NIENTE DA FARE?". No, non lo aveva, e io lo sapevo bene. Il torello consisteva appunto nell'obbligare l'operaio sgradito a girare a vuoto. "BEH. NON HAI NIENTE DA FARE?", e il poveretto cominciava a girare per il reparto alla disperata ricerca di qualcosa da fare. E quando, dopo qualche inutile giro, si fermava, ti avvicinavi e con aria seccata.."BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?".
In genere il torello non durava mai più di una settimana. "BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?" Se era intelligente l'operaio capiva l'andazzo e dava subito le dimissioni. Se non era intelligente prima o poi finiva per risponderti" SEI TU IL CAPO DEVI DIRMELO TU COSA FARE", e così si passava immediatamente alla fase B.
Priante si pettinava come Adriano Panatta, perciò non si poteva certo dire che avesse un'aria intelligente. Oltretutto da un po’ aveva anche un sorrisino ebete stampato in faccia. Tuttavia erano passati quasi due mesi e ancora non si era deciso a rispondermi. Di più; sembrava non avere nessuna intenzione di farlo.
"BEH? NON HAI NIENTE DA FARE?".
Non mi guardava nemmeno in faccia.
Camminava per la fabbrica come uno zombie, avrebbe potuto girare a vuoto all'infinito.
"Capo.."
"Hai risolto il problema?"
"Quel Priante e' un osso duro."
"Non si regge nemmeno in piedi. Cos'è, ti dispiace? Scommetto che ti commuovi. No, non ce lo possiamo permettere. Pugno duro ci vuole!"
Passai immediatamente alla seconda fase.
FASE B: il servizio.
La chiamavano manutenzione, ma in realtà si trattava solo di tenere pulito il reparto.
In genere i compiti di manutenzione erano divisi fra tutti gli operai. Ogni operaio si doveva occupare di tenere pulito il suo posto di lavoro e il suo macchinario. Erano i compiti più fastidiosi perché si finiva inevitabilmente per sporcarsi.
"Il servizio" consisteva nel delegare a un solo dipendente, quello da stancare, tutti questi lavoretti di merda, con una piccola aggiunta: la pulizia dei cessi. All'operaio sgradito non restava altro che licenziarsi: era la cosa più conveniente, qualsiasi lavoro avesse trovato sarebbe stato di sicuro migliore di quello.
Cominciai a far pulire i cessi a Riccardo tre volte al giorno, ma a lui sembrava non importare. Passava un terzo delle sue giornate con una ramazza nella mano destra e un secchio d'acqua nella sinistra, senza che nessuno gli rivolgesse mai la parola, tranne me: Riccardo pulisci il cesso Riccardo puliscilo di nuovo Riccardo fammi due ore di straordinario Riccardo svuota la mondezza Riccardo qui è sporco.
E Riccardo puliva.
Lentamente.
Senza fiatare mai.
A trovarsi un altro lavoro non ci pensava nemmeno. Del resto chi avrebbe assunto un ragazzo in quelle condizioni? Il suo stipendio continuava a pesare sul bilancio e se la produzione non cominciava a risalire quello che si doveva preoccupare di trovare un altro lavoro ero io.
Qualcuno aveva anche cominciato ad osservarmi. Ogni tanto il telefono del mio ufficio squillava, ma dall'altro lato non rispondeva mai nessuno. Mi stavano controllando. Probabilmente stava facendo il giro delle scrivanie un fascicolo col mio nome scritto sopra e SCHEDA DI VALUTAZIONE subito sotto e temevo che da un momento all'altro il mio capo avrebbe smesso di chiamarmi per nome.
Sarebbe stato un segnale chiaro.
Chiamarsi per nome era una di quelle direttive imposte dall'alto, nella convinzione che per formare un gruppo di lavoro solido si dovesse creare nella fabbrica un ambiente familiare.
La grande famiglia.
Non si sapeva mai molto uno dell'altro, ma ci si doveva chiamare per nome. Se non ti si chiamava per nome eri "out". E poi i lavori più schifosi sembravano un po’ meno schifosi se ti chiedevano di farli chiamandoti per nome. "Riccardo togli la merda da quel cesso" era molto diverso da "hei tu togli la merda da quel cesso".
La fase C consisteva per l'appunto nello smettere di chiamare il dipendente per nome e io Priante già da un po' avevo cominciato a chiamarlo con un fischio, come si fa con i cani.
Se qualcuno mi avesse fatto un fischio e poi mi avesse detto "hei tu togli la merda da quel cesso" probabilmente sarei scoppiato a piangere. Ma Riccardo sembrava non appartenere più a questo pianeta. Pisciavo apposta fuori dalla tazza e poi gli nascondevo lo straccio. Versavo del lubrificante per terra e poi lo rimproveravo di non pulire il pavimento. Qualsiasi cosa andasse storta era colpa sua. Hei tu che cazzo fai hei tu dove credi di essere hei tu muoviti coraggio andiamo hei tu. Niente da fare, non riuscivo proprio a toglierli quel sorrisino ebete dalla faccia. E il mio capo non era un tipo paziente. Di notte sognavo sempre di ricevere una sua lettera di convocazione e mi svegliavo tutto sudato.
Una mattina la trovai lì, quella lettera, sopra la mia scrivania. Mi tremavano le gambe mentre percorrevo il lungo corridoio che portava al suo ufficio. Mi ero anche preparato una specie di discorso, l'avevo ripetuto migliaia di volte davanti allo specchio il giorno prima. Non era male. Ad un certo punto mi sarei alzato avrei battuto il pugno sul tavolo ed avrei gridato: MA ALLORA ME LO DICA LEI COME SI FA, EH, COME SI FA... A STANCARE UNO CHE E' GIA' STANCO?
Quando entrai lui stava di spalle, ad ammirare il panorama seduto sulla sua poltrona. Spazzolai con la mano i peli di gatto dalla mia poltrona e mi accomodai. Quando si voltò verso di me lo guardai in faccia e pensai che anche stavolta non sarei riuscito a dire niente.
"Boccaletti arriverà fra tre giorni. Visiterà la fabbrica. Fai in modo che trovi tutto in ordine mi raccomando."
Annuii con il capo. Lui continuava a fissarmi, in silenzio.
"Bene."
Annuii ancora. Lui continuava a guardarmi, e io non riuscivo a smettere di annuire.
"Beh, che c'è? C'è qualcosa che devi dirmi?"
"No!"
"E allora che aspetti? Vai a lavorare, avanti!"
Non ci potevo credere, avevo ancora il mio lavoro. Ed ero anche riuscito a dire "no".
Si trattava solo della visita di routine di Boccaletti, l'amministratore delegato. Ogni tre mesi veniva qui sulla sua Porsche gialla con tutto il suo seguito di portaborse. Non aveva neanche trent’anni, si diceva di lui che fosse una specie di genio dell'economia. Mah! Una cosa però era sicura: di produzione tecnica non ci capiva un cazzo. Bastava che la fabbrica fosse pulita e ordinata e lui era contento. L'ultima volta l'unica cosa che aveva detto era stata di sistemare la siepe attorno al parcheggio.
Questa volta però, mentre il mio capo lo accompagnava in giro per il reparto, osservando la lentezza con cui lavorava Priante, di sicuro si sarebbe chiesto quello che si stavano chiedendo un po' tutti: perché quel ragazzo sta ancora qua?
Già, perché?
Perché io ero un incapace, ecco perché! Questo gli avrebbe risposto il mio capo, e questa risposta gli avrebbe fruttato almeno una decina di punti. A me, invece, sarebbero stati azzerati in un lampo. Avrei perso il lavoro, il lavoro giusto. No, non doveva succedere. Forse, dopo che gli avessi fatto pulire l'intera fabbrica in soli tre giorni, Priante sarebbe crollato, se ne sarebbe andato.
L'impalcatura mobile era alta quasi cinque metri, a perfetta norma di legge.
HEI TU SALI LI SOPRA E TOGLI LA MUFFA DA QUELLA PARETE.
Mentre saliva Riccardo sembrava sul punto di cadere ad ogni passo. Quando arrivò in cima sembrava un gatto bloccato su un ramo di un albero.
LA VEDI QUELLA MACCHIA? PASSACI SOPRA LA SPUGNA.
Non si muoveva.
Fermo, immobile, a cinque metri di altezza.
MA NON LA VEDI? LA MACCHIA DI MUFFA! E' LI', SULLA TUA DESTRA! Niente da fare non la vedeva.
MUOVITI COGLIONE! SPOSTATI A DESTRA! ECCO BRAVO, SULLA DESTRA, CORAGGIO. SPOSTATI ANCORA. SULLA DESTRA, BRAVO. E' PROPRIO LI', A DUE PASSI DA TE, LA VEDI? No, non la vedeva. MA E' SULLA DESTRA! SULLA DESTRA COGLIONE. VAI A DESTRA! A DESTRA!
Non avrei mai immaginato che il rumore di una testa che si rompe fosse così simile allo scoppio di una ruota di bicicletta. Quando Riccardo cadde dall'impalcatura gli altri operai accorsero con attrezzi e chiavi inglesi in mano, temendo il guasto di qualche tubo o di qualche macchinario.
"Si è sporto troppo che disgrazia chiamate un'ambulanza".
C'era un lago di sangue sul pavimento, io balbettavo fra le lacrime sempre la stessa frase, continuamente: "Era salito per togliere la muffa era salito per togliere la muffa era salito per togliere la muffa".
Quando arrivarono i soccorsi Riccardo era già morto.
La fabbrica per qualche giorno si sarebbe fermata. Gli operai cominciarono ad andare a casa, sconvolti. Solo Carlo Caneva non si muoveva da lì, e continuava a guardarmi, spaventato. Ad un certo punto si avvicinò: "Ma quel muro l'avevo già pulito io ieri, perché l'hai fatto salire lì sopra?".
Alzai lo sguardo. Il muro era bianco, perfettamente pulito, e Riccardo non era riuscito nemmeno a toccarlo.
Carlo Caneva aveva capito tutto, ma non ero affatto preoccupato, anzi, provavo quasi un senso di eccitazione al pensiero che finalmente sarei riuscito a dargli la risposta giusta, quella definitiva.
"Non l'avevi pulito abbastanza bene."
Cinque punti.
"Sono cose che capitano".
Boccaletti commentava la morte dell'operaio masticando del vitello.
"Ci è piaciuto il modo con cui è stata gestita questa vicenda. I giornalisti sono sempre in agguato, soprattutto quando si tratta di aziende grandi come la nostra. Per noi l'immagine conta più della qualità. Assaggi il vitello è delizioso."
Era la mia prima cena di lavoro e non avevo fame. Boccaletti era seduto di fronte a me e io avevo dovuto comprami la cravatta per l'occasione. Ogni tanto osservavo il nostro riflesso sulla vetrata del ristorante: eravamo due uomini in doppiopetto che parlavano di marketing. Le probabilità che il cameriere avesse sputato nel nostro piatto erano decisamente alte.
"Il suo capo è davvero un uomo in gamba. Non ci aspettavamo che l'inchiesta venisse chiusa così presto. Di questo abbiamo bisogno. Di uomini come lui. Lei da quanto tempo lavora con noi?"
"Sette anni"
"Già, sette anni. Avrà di certo imparato molte cose da un uomo come il suo capo."
"Molte cose certo."
Il mio capo aveva zittito i sindacati con un paio di mazzette. Era tutto quello che sapevo. Non avevo idea di come fosse riuscito a lavorarsi così bene polizia e stampa. Probabilmente non aveva fatto nulla. La morte di uno come Priante non interessava a nessuno. L'unico a sembrare preoccupato era Carlo Caneva. Se ne andava in giro dicendo che Priante era stato ammazzato. Ma nemmeno gli altri operai della fabbrica gli davano peso. Per tutti era un coglione che diceva coglionate e dopo qualche giorno si stancò di farsi ridere in faccia.
"Ho parlato col suo capo proprio ieri. Abbiamo deciso di affidargli la direzione della nostra azienda più grande. E' un po’ in difficoltà e noi pensiamo che il suo capo sia l'uomo giusto. La sua esperienza è preziosa. Non lo assaggia il vitello?"
Mandai giù il mio primo boccone e sorrisi. Mi ero imposto di sorridere molto e di ridere di gusto qualsiasi battuta avesse fatto, esattamente come se avessi dovuto uscire con qualche ragazza.
"Ha ragione è delizioso."
Boccaletti tirò fuori un foglio di carta e me lo sistemò davanti.
"Le stavo dicendo...l'esperienza del suo capo è preziosa. Lei ha lavorato con lui sette anni, e ora che se ne va, vorremmo proporre a lei la direzione della Barzotto. Questo è il contratto."
Tirò fuori una stilografica argentata dal taschino della giacca e me la porse.
"E' quadriennale."
Credo si aspettasse una faccia stupita. Beh, non solo non ero stupito, ma non mi sentivo neanche particolarmente grato. Avevo fatto i miei calcoli e sapevo che avevo totalizzato da qualche giorno abbastanza punti da meritarmi, oltre che un telefono e una scrivania, anche una segretaria. Mentre firmavo pensavo che l'avrei scelta bionda e senza occhiali.
La prima cosa che avrei fatto entrando nel mio nuovo ufficio sarebbe stata quella di togliere i terrificanti motti che il mio capo aveva appeso alla parete. Anzi no, la prima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di spazzolare via i peli del suo gatto dalla poltrona. In realtà la prima cosa che feci fu quella di gettare nel cestino un mazzo di fiori che qualcuno aveva lasciato nel mio nuovo ufficio. All'inizio avevo pensato al solito leccaculo, ma non c'era nessun biglietto e un leccaculo non l'avrebbe mai dimenticato. Osservandoli meglio capì che quei fiori erano un omaggio funebre. Evidentemente il ricordo di Priante era ancora vivo dentro la fabbrica.
Ma appena avrei assunto il nuovo operaio le cose sarebbero cambiate.
Avevo già visto una ventina di candidati.
Avevo letto i loro curriculum, mi ero sforzato di memorizzare il loro nome di battesimo per rendere il colloquio meno formale possibile; avevo portato in giro ognuno di questi giorgi e franchi e mattei e giuseppi per i reparti; mi ero prodigato per spiegare loro l'intero processo di lavorazione, sgolandomi per farmi sentire in mezzo al frastuono dei macchinari, pur sapendo che non ci avrebbero comunque capito nulla.
E poi, alla fine, gli avevo mostrato il lavoro che avrebbero dovuto fare.
Raccogliere i pannolini in un cesto.
Raccogliere i pannolini in un cesto.
Raccogliere i pannolini in un cesto.
Risposero tutti nello stesso modo: NO. QUESTO LAVORO NON MI PIACE.
Stronzi.
Io per conto mio non avevo mai pensato che il lavoro mi dovesse anche piacere. Avevo sempre pensato al lavoro ad una cosa come lavare i piatti, o pulire il cesso, insomma ad una cosa che DEVI fare, a meno che non ti piaccia vivere nella merda. Provarci pure gusto mi sembrava una cosa da pervertiti. Ogni giorno dovevo fare i conti con un sacco di gente che amava il proprio lavoro. Il mio dentista, ad esempio, aveva sempre stampata sulla faccia la stessa espressione soddisfatta mentre lavorava. SE NON TI PIACE IL TUO LAVORO SEI FOTTUTO mi disse una volta. Il suo lavoro era mettere le mani nella bocca della gente. Raccogliere pannolini in un cesto mi sembrava molto più dignitoso. Possibile che fosse così difficile trovare qualcuno disponibile?
Mi restavano ancora otto candidati e io avevo perso già abbastanza tempo. Li convocai tutti nello stesso giorno e alla stessa ora. Diedi disposizioni alla segretaria per farli accomodare nella reception, in modo da poterli osservare dal mio ufficio grazie al sistema di monitoraggio a circuito chiuso. Seduti sulle poltroncine cremisi, una chiccheria imposta da Boccaletti in persona, tenevano tutti gli occhi fissi sul pavimento, in religioso silenzio. Non volevano concedere nessun vantaggio agli avversari.
Il più giovane doveva avere trent'anni, l'unico dei cinque che non aveva indossato le scarpe con le quali andava a messa. Fu il primo a parlare: "Che ore sono?"
Era anche il solo che non aveva messo l'orologio al polso. Gli altri gli risposero praticamente in coro: "Quasi mezzogiorno."
"Avevate anche voi l'appuntamento alle dieci?"
"Sì."
Dopo un'ora stavano ancora tutti lì. Qualcuno aveva cominciato a cincischiare con i piedi, qualcun'altro batteva le dita sulle ginocchia, ma nessuno aveva ancora osato alzarsi dalla poltroncina cremisi. Ci vollero altri quaranta lunghi minuti perché il tizio senza orologio, forse spinto dalla fame, trovasse il coraggio. "Buona fortuna" disse. Nessuno gli rispose. Lui aprì la porta e se ne andò.
Il secondo lo seguì mezzora dopo. Gli altri continuarono ad aspettare la mia chiamata in silenzio. Alle sei della sera ne erano rimasti ancora due. Uno aveva sempre il culo incollato alla poltroncina. L'altro passeggiava nervosamente per la stanza, avanti e indietro avanti e indietro, palpeggiando qualsiasi cosa trovasse davanti, il tavolino, le riviste di meccanica, i quadri appesi alle pareti. Quando si trovò davanti alla porta palpeggiò la maniglia e sparì per sempre.
L'ultimo ometto rimasto continuava a tenere gli occhi puntati sul pavimento. Li alzò per la prima volta quando la segretaria si avvicinò a lui:
"Il capo ha detto che il lavoro è suo se lo vuole"
"Ma...e il colloquio?"
Non c'era bisogno del colloquio. Non volevo l'uomo migliore. Mi bastava il più disperato.
Il nuovo assunto cominciò il giorno dopo. Lavorava sodo. Lavorava sodo perché l'avevo deciso io. Ero io il capo. Decidevo io se le cose andavano bene o se andavano male. Le compilavo io, ora, le schede di valutazione. Tuttavia qualcuno continuava a controllarmi. Non ero riuscito a capire chi fosse. Ogni giorno trovavo nel mio ufficio il solito mazzo di fiori e il mio telefono squillava di continuo senza che dall'altro lato rispondesse mai nessuno.
“Ti è mai capitato di vedere Carlo Caneva con dei fiori in mano ?”
La mia segretaria si mise a ridere: “Carlo a una donna non riuscirebbe nemmeno a rivolgere la parola, figurati portare dei fiori”.
Carlo Caneva ogni tanto passava per gli uffici a svuotare i cestini. Non era il solo nella fabbrica ad avere accesso al mio ufficio, ma era l’unico che provava del risentimento verso di me. Non mi rivolgeva più la parola dal giorno della morte di Riccardo. Non avevo bisogno di beccarlo con i fiori in mano per capire che era lui a mandarmeli e a fare quelle telefonate, e liberarmi di lui sarebbe stato molto semplice dal momento che era un
“LADRO!”
Carlo rimase in silenzio, guardandomi con aria interrogativa.
“ Non fare il finto tonto con me! Avevo lasciato dei soldi proprio qui, sopra la scrivania”
“Lo giuro, non li ho presi io”
“Carlo, guardati intorno. Vedi qualcun altro oltre me e te?”
Carlo sapeva che a quell’ora non poteva esserci nessuno oltre a noi due. Quello che non sapeva era che in realtà io non avevo affatto lasciato dei soldi sopra alla scrivania.
Lo osservai in silenzio mentre singhiozzava: “ Non sono un ladro, lo giuro, non sono un ladro…”
Gli porsi una busta: “Tieni, questa è la lettera di licenziamento”.
“No, la prego…questo lavoro è tutto quello che ho.”
“Ringrazia il cielo che non ti denuncio, piuttosto.”
Quella fu l’ultima volta che vidi Carlo Caneva.
Ciò nonostante continuavo a trovare il solito mazzo di fiori sulla scrivania e a ricevere quelle misteriose telefonate.
L’ansia che provavo nell’attraversare i reparti era insopportabile. Ero costretto a restare tutto il tempo rinchiuso nel mio ufficio, e sempre più spesso mi sorprendevo ad esitare nell’alzare la cornetta. A volte il telefono smetteva di squillare dopo trenta, quaranta secondi, e io cominciavo a logorarmi pensando all’ennesimo cliente che non era riuscito a contattarmi.
Altre volte, invece, il telefono continuava a squillare, senza tregua.
Continuava e continuava, ed io non trovavo il coraggio per rispondere.
Immobile alla scrivania, fradicio di sudore, riuscivo solamente a contare gli squilli.

"Perché cavolo hai staccato il telefono?"
Ogni angolo dell'appartamento era avvolto dal buio. Anna procedeva a tastoni, si aggirava nervosamente per le stanze sbattendo continuamente ginocchia e gomiti. Avevo coperto tutte le finestre con dei drappi neri. Anna ne toccò uno.
"No Anna ti prego non lo levare."
Anna voltò il capo nella mia direzione, immobile di fronte alla mia sagoma scura. Poi un gesto violento tolse il drappo dalla finestra. Il sole non illuminava la mia casa da diversi giorni. Non avevo mai visto Anna così arrabbiata.
"Ma ti sei visto?"
Fissai il riflesso del mio volto sulla specchiera dell'armadio. Anna non parlava. Dovevo fare veramente paura: le guance cianotiche, un ghigno che mi attraversava la faccia.
"Sono sei giorni che cerco di parlarti. In ufficio mi hanno detto che ti sei preso due settimane di ferie. Che cavolo ti è successo?"
Non sapevo cosa dire. Odiavo le persone che dicevano cavolo al posto di cazzo. Anna era la mia ragazza; amore e odio e cazzo cazzo e cazzo.
Mi avvicinai ed appoggiai la testa sul suo petto.
Non piangevo da nove anni.
Lei mi strinse: "Forse è meglio se non ci vediamo per un po'. Ho bisogno di una pausa di riflessione."
Mi allontanai ed andai a sedermi sul divano, le mani sulla fronte: "Credevo che le pause di riflessione le prendessero solo i protagonisti dei film americani."
Lei ricominciò a girare per le stanze: "Tu hai qualcosa che non va."
"Cercare di capire se ami qualcuno standogli il più lontano possibile. Gli americani riescono sempre a rifilarci le più grandi assurdità. Scommetto che questa idea ti è venuta dopo che hai visto Michelle Pfaiffer lasciare Al Pacino."
Lei sembrava sempre più spaventata.
"Ho bisogno di tempo. Ne hai bisogno anche tu."
"Certo. Non bastava il chewingum. Non bastava Halloween. Non bastavano i quiz, il jogging, i fast food, il rap. Non bastava il bingo. Adesso mi devo sorbire pure questa cazzo di pausa di riflessione."
Anna non mi guardava nemmeno più. Era sempre più nervosa. Cercava la sua borsetta. La trovò e infilò di corsa l'uscita. Se fossi stato Al Pacino l'avrei rincorsa per le scale e le avrei gridato "non mi lasciare Anna non mi lasciare". La rincorsi per le scale.
"TROIA. MI HAI SENTITO? SEI UNA TROIA!"
Tornai nel mio appartamento. Dalla finestra potevo vedere Anna che attraversava la strada passando fra le macchine bloccate dal traffico. Raccolsi il drappo nero dal pavimento e ricoprii la finestra. L'oscurità mi avvolse di nuovo.
La luce del supermercato era fredda e gialla come quella del mio frigorifero.
Il mio frigo era vuoto da tre giorni. Il supermercato invece era sempre pieno; era gigantesco, ottomila metri quadri, quarantacinque casse. Ogni cosa era invasa da numerini e scatoline. Attorno a me vedevo i volti felici ed ansiosi di chi si cimentava nel gioco dei carrelli. La gara era a chi li riempiva di più.
Le commesse erano vestite come robot, con i capelli nascosti da un ridicolo berretto e un’avvilente targhetta appiccicata sul petto.
Una di loro raccoglieva in una cassetta i pomodori marci che trovava fra quelli esposti. Su alcuni di questi le mosche avevano già cominciato a ronzare attorno. Ma non li buttava.
Li riponeva accanto a quelli ancora buoni, aggiungendo solo il cartellino del prezzo; mille lire più degli altri!
Naturalmente la gente li comprava. Costavano di più perciò dovevano essere più buoni.
Mi avvicinai alla commessa, cercando di leggere il suo nome sulla targhetta. "Ehm.. Paola, non riesco a trovare gli alcolici". La ragazza mi squadrò dall'alto in basso, soffermandosi sulle mie occhiaie.
"Sono lì in fondo, dove c'è il cartello del tre per due."
Era l'unico reparto deserto. Le bottiglie erano disposte in un ordine preciso: le più economiche in basso e in alto, le più costose al centro. Se avevi mal di schiena o se non eri abbastanza alto eri fottuto..
Presi tra le mani qualche bottiglia, guardandole per qualche istante. Le posai, indeciso, e iniziai a camminare per il reparto, tra le bottiglie, lentamente, avanti e indietro, le mani in tasca, il capo chino e lo sguardo rivolto verso il basso. All’improvviso mi fermai, guardai le bottiglie ancora per qualche istante e allunga la mano per prenderne una, ma appena la afferrai e la spostai dal ripiano vidi qualcosa dietro lo scaffale che mi paralizzò, facendomi cadere la bottiglia di mano.
Era l’occhio di qualcuno che mi fissava, mi puntava, vitreo e immobile.
Io fissavo l’occhio.
L’occhio fissava me.
Mi gettai sul pavimento d'istinto e non so quanto rimasi lì, supino, indifferente ai cocci della bottiglia che avevo rotto e al vino che mi stava inzuppando i vestiti. Il cuore mi batteva fortissimo. Quando decisi di rialzarmi attorno a me si era formata una piccola folla di curiosi. Nessuno di loro aveva il coraggio di avvicinarsi.
Cominciai a correre, scrollando chiunque mi trovassi davanti, sbattendo continuamente nei loro carrelli.
CHI CAZZO SEI?
Gridavo.
L'intero supermercato era paralizzato. CHI CAZZO SEI? Mi guardavano tutti ammutoliti. Quattro vecchiette si erano stese completamente sul pavimento e mi imploravano di non ucciderle. Un bambino piangeva, disperato. Era la prima volta che vedevo un bambino piangere dentro un carrello della spesa. Sul soffitto, tutte le telecamere erano puntate su di me.
"PAOLA COME CAZZO SI ESCE DA QUA?"
La ragazza mi indicò l'uscita. La mano le tremava.
Fuori, cercai di ridarmi un contegno riaggiustandomi la giacca e ripetendomi più volte DEVO STARE CALMO DEVO STARE CALMO DEVO STARE CALMO. Lo ripetevo anche in macchina, a voce alta, mentre guidavo verso la fabbrica.
Quel giorno avrei dovuto chiudere un affare importante. I cinesi erano i nostri clienti più prestigiosi. Mentre li accompagnavo nella visita di routine della fabbrica, mi guardavo continuamente intorno. Il movimento della testa, avanti e indietro a destra e a sinistra, era diventato quasi meccanico. Anche l'interprete sembrava imbarazzato. A pranzo, i cinesi mi dissero che non avrebbero firmato il contratto.
Solo dopo essere tornato nel mio ufficio mi accorsi che puzzavo d'alcool da fare schifo. Mentre mi toglievo gli abiti sporchi di vino il telefono cominciò a squillare. Dall'altro lato non rispose nessuno. Il cuore ricominciò a battere come impazzito: lì, sull'angolo della scrivania, c'era il solito mazzo di fiori."Capo? Capo...si svegli."
Avevo la faccia sul pavimento e sentivo un orribile odore di sandalo e patchouli. La mia segretaria aveva acceso un bastoncino d'incenso e me lo stava passando sotto il naso. L'estate scorsa aveva passato due settimane in India e adesso blaterava spesso di reiki, kundalini yoga e fengshui. Mi aveva anche chiesto di spostare la sua scrivania dietro i classificatori, vicino a un ficus, lontano da quel nodo elettromagnetico che le impediva di trovare l'armonia interiore e il benessere fisico.
"Coraggio, ripeta dopo di me: l'armonia è dentro di me, l'armonia è dentro di me, l'armonia è dentro di me..."
Niente. Guardavo questa donna di quarant'anni che portava ancora i capelli corvini all'hennè sciolti sulle spalle e non riuscivo a dire niente.
"Ma che è successo?"
"Ha avuto un attacco di panico ed è svenuto. Ho già acceso il bollitore elettrico. Una tisana di betulla la rimetterà in sesto."
"La riunione è già cominciata?"
"Non credo comincino senza di lei. Sa, penso che le farebbe molto bene qualche ora di watsu in piscina. Aiuta a combattere l'ansia. Si prenda qualche giorno di ferie."
"La smetta di dire sciocchezze. Sono tornato dalla ferie oggi. E sono già in ritardo."
"Prenda almeno la tisana."
Mi alzai, indossai la giacca e mi sistemai il nodo della cravatta.
"Non ho tempo per la sua tisana."
"La produzione è costantemente in calo"
Guiotto era stato per anni il mio compagno di lavoro più stretto ed ora che era diventato il numero due della fabbrica mi mostrava sulla lavagnetta magnetica un grafico tutto in discesa, fissandomi con aria preoccupata mentre pensavo alla cosa giusta da dire.
Nella sala calò il silenzio. Gli sguardi degli altri dirigenti si perdevano nell'aria. Guiotto prese di nuovo la parola: "L'impianto è già al massimo regime. Sono calati gli ordini di lavoro. Per questo la produzione continua a diminuire. Abbiamo perso quattro clienti in due mesi."
Guiotto si rimise seduto coprendosi il volto con le mani.
Paolo Ghello era il più giovane fra gli uomini seduti attorno al tavolo, i capelli corti e il bicchiere sempre mezzo pieno. Sembrava uscito dalla pubblicità del dentifricio: "Gli operai sono preoccupati. Hanno addirittura indetto un'assemblea sindacale. Forse è il caso che lei parli con loro."
"Convocateli tutti in sala mensa."
Gli operai entrarono lentamente, uno dopo l'altro, con i loro fieri cipigli. Non volevo farla troppo lunga. Sistemai il microfono e feci un bel respiro profondo per prendere coraggio.
"Buongiorno a tutti”. Nella stanza calò il silenzio.
“So che siete preoccupati per il calo di lavoro. Negli ultimi mesi ci sono stati dei cambiamenti ai vertici del gruppo Barzotto. Ora c'è una nuova politica aziendale. C’è in atto una trasformazione: la nostra non è più una fabbrica di quantità, ma di qualità. Il calo di lavoro dipende da questo. Perciò state tranquilli e pensate solo a fare del vostro meglio."
Pensavo di aver fatto un buon discorso. Ma gli operai non sembravano rinfrancati. Uscirono tutti tranne Fanton, che rimase seduto, fissandomi, con le braccia incrociate. Si alzò, si avvicinò e sbatté il pugno sul tavolo: "IO NON ME LE BEVO LE TUE CAZZATE"
"Ma...ma siamo impazziti?"
"NO! TU SEI IMPAZZITO. COSA CREDI CHE DICA LA GENTE QUANDO CAMMINI PER I REPARTI VOLTANDOTI OGNI DUE SECONDI? MA GUARDATI! DA QUANTI GIORNI NON DORMI?"
"Non alzare la voce con me"
"SEI SCOPPIATO! SONO TRENTANNI CHE VEDO GENTE SCOPPIARE QUA DENTRO. QUELLE MEZZE SEGHE CHE TI STANNO ATTORNO NON HANNO IL CORAGGIO DI DIRTELO. BEH TE LO DICO IO: DEVI ANDARTENE! MI MANCANO SOLO QUATTRO ANNI ALLA PENSIONE. VATTENE HAI CAPITO? VATTENE!
Fanton rimase in silenzio per qualche istante, a fissare la lacrima che mi stava attraversando il viso. In quel momento ebbi la sensazione che se fossi riuscito a dire qualcosa sarei riuscito ad evitare lo sciopero degli operai. Ma i singhiozzi mi soffocarono le parole in gola.
Lo sciopero venne proclamato il giorno seguente. Uno sciopero contro di me.
Non ero preoccupato. Lo stratagemma per evitare forti adesioni agli scioperi funzionava sempre. Bastava offrire agli operai, singolarmente e con circospezione, otto ore di ferie nel giorno dello sciopero. Era un’offerta vantaggiosa. Per me e per loro. Chi accettava non perdeva i soldi della giornata e allo stesso tempo, non presentandosi al lavoro, evitava di essere accusato dagli altri operai di aver tradito la causa comune. Ordinai a Guiotto di telefonare a casa di tutti gli operai, ma nessuno di loro accettò. Anche gli operai della mia vecchia squadra, Bicego, Zanuso e Martina, si rifiutarono, e sfilarono davanti ai cancelli assieme agli altri, impugnando i cartelli di protesta. I reparti erano deserti, l’adesione allo sciopero totale.
Guiotto osservava sorridendo i picchetti degli operai di fronte al cancello della fabbrica. Probabilmente stava già pregustando la promozione a direttore generale, al mio posto. Mentre lo guardavo cominciò a balenarmi in testa l’idea che a fare quelle telefonate e a mandarmi quei fiori avrebbe potuto essere lui. In fondo era sempre stato invidioso di me e del mio successo. Era stanco di essere il numero due. Sognava un posto da direttore? Bene, io avrei fatto diventare il suo sogno realtà.“In Ungheria?”
“Il gruppo Barzotto sta programmando di trasferire parte della produzione nei paesi dell’est. La manodopera costa meno della metà. Hanno già aperto un paio di fabbriche in Cecoslovacchia, e ora hanno bisogno di una persona in grado di avviare la prima fabbrica in Ungheria. Io ho proposto il tuo nominativo, e ho insistito molto con Boccaletti.”
Guiotto mi guardava perplesso.
“Ti ringrazio molto per la fiducia. Però, tu lo sai, mio figlio ha iniziato da poco la scuola… non lo so, forse per lui trasferirsi in un paese così lontano in questo momento potrebbe essere un trauma. Ne dovrei parlare prima con mia moglie.”
“Ma certo. Però tieni presente che se non accetti potresti dare l’impressione di uno che ha paura delle responsabilità. Potrebbe essere un grosso ostacolo alla tua carriera. Su queste cose Boccaletti è intransigente.”
Guiotto partì il giorno seguente per l’Ungheria. Solo, in un paese lontano in cui si parlava una lingua sconosciuta: mi sembrava fosse la giusta punizione. Purtroppo non era lui a controllarmi continuamente. Lo scoprii il giorno dopo, quando sulla mia scrivania trovai ancora il solito mazzo di fiori. Volevo solo andarmene più lontano possibile da lì. Che ne so, in Messico. Come fanno i protagonisti dei film americani, che quando fanno una cazzata se ne scappano sempre in Messico.
Telefonai alla mia segretaria.
"Aveva ragione lei, mi prenderò qualche giorno di ferie. A cominciare da domani.”
Andai in campagna dai miei genitori. Sapevo di non avere un bell'aspetto. Quando mia madre mi vide ricominciò a mettermi il santino di padre Pio nel portafoglio. Passavo le giornate in giardino a fare tiro con l'arco. La notte però non riuscivo a dormire. Mi giravo e rigiravo continuamente nel letto. Una sera scoprii che mia madre aveva messo il santino di padre Pio anche dentro il mio cuscino.
Anche mio padre soffriva d'insonnia. I calli sulle mani e l'insonnia erano i segni che gli avevano lasciato i turni di notte in fabbrica. Aveva lavorato una vita dentro la Barzotto come operaio ed ora che aveva un figlio direttore di quella fabbrica, si era preso la sua grande rivincita. Ma non parlavamo mai di lavoro. Mentre tendevamo l'arco e prendevamo la mira, la regola era chiara: non parlare.
"Tua madre ha l'amante."
La mia freccia si perse al di là del bersaglio, sopra la siepe.
"La mamma?"
Mio padre tese l'arco.
"Sono quattro mattine che trovo dei fiori davanti alla porta."
Centro perfetto.
" Sempre gli stessi. Poi ogni tanto squilla il telefono, ma dall'altro lato non risponde nessuno."
"Avrà sbagliato numero."
"Cinque volte al giorno?"
Lasciò partire un'altra freccia e fece di nuovo centro: "Se la becco l'ammazzo."
Tesi l'arco e provai a prendere la mira. Non ci riuscivo. La mano mi tremava troppo.
Durante la cena mio padre si rifiutava di rivolgere la parola a mia madre. Ingurgitava con rabbia ogni boccone, beveva e riponeva il bicchiere sul tavolo sbattendolo con violenza.
Mia madre era allibita. Non riusciva a toccare cibo. Fissava il piatto, in silenzio.
Ad un certo punto cominciò a singhiozzare: "Mi dispiace."
Mio padre smise di masticare. Mia madre continuava a singhiozzare: "Perdonami."
IO TI AMMAZZO!
La stava strozzando. Gli sferrai un pugno dietro la nuca e gli schiacciai la faccia sulla moquette. Mia madre accorse in suo aiuto. LASCIALO GLI FAI MALE.
Con un fazzolettino asciugò il rigolo di sangue che gli usciva dal naso: "Non lo faccio più. Te lo giuro. E' l'ultima volta. Non la chiamo più la donna delle pulizie non la chiamo più. Farò tutto da sola. Hai ragione tu. La casa è piccola e la donna delle pulizie costa troppo."
"La donna delle pulizie?"
"L'ho fatta venire solo ieri mattina te lo giuro. Solo una volta."
"TU HAI L'AMANTE!"
Mia madre smise di asciugargli il naso."Tu sei matto."
"HO LE PROVE."
"Papà, quei fiori sono per me. Anche le telefonate."
"Non provare a difenderla. Non sono stupido come pensate voi."
"Ma quali fiori? Cosa state dicendo?". Mia madre era sempre più confusa. Li lasciai litigare. Provare a spiegare era inutile. La sola cosa che potevo fare era andarmene prima possibile da lì.
Fuori il cielo tendeva al viola. Le luci battevano sul cofano della macchina. Mentre guidavo fissavo quelle luci. E all’improvviso mi sembrò di capire.“Direttore, è successo qualcosa?”
La mia segreteria sembrava stupita di vedermi sulla soglia della sua porta di casa a quell’ora così tarda.
“Non sei felice di vedermi?”, le chiesi.
Non voleva farmi entrare. Questa stronza mi controllava da settimane, mi spiava, mi seguiva dappertutto, perfino al supermercato. E ora non voleva farmi entrare. Vinsi la sua resistenza ed entrai nell’appartamento.
“Perché non provi a dirmelo?”
“Dirti cosa?” fece lei. Stronza. Mi telefonava di continuo e quando rispondevo, rimaneva in silenzio. Ma cazzo, ora che ero lì poteva dirmelo.
“Ma dirti cosa?”
“Che ti sei innamorata di me!”
Lei rimase in silenzio, gli occhi sgranati e la bocca leggermente socchiusa dalla sorpresa.
In quel momento si sentì la voce di un uomo provenire dall’altra stanza:”Chi è ?”
La segretaria rispose balbettando:”E’ …il mio capo.”
L’uomo entrò nella stanza. Era il suo fidanzato: “Cosa vuole a quest’ora?”
Lei si buttò tra le sue braccia: “Pazzo…è pazzo, dice che io sono innamorata di lui”.
Lui si diresse minaccioso verso di me.
“Mi manda i fiori” gli dissi.
“Vattene, fuori di qui!”
“Mi fa anche le telefonate…”
L’uomo si avventò su di me, mi prese per il bavero della giacca e mi cacciò fuori.
Passai la notte rintanato nella mia stanza, a piangere. Non riuscivo a capire chi fosse a controllarmi continuamente.
Quando, il giorno dopo, tornai alla Barzotto, trovai il mio posto auto occupato da una Saab rossa con la targa gialla. Alla reception la ragazza mi spiegò che c'era stata una ridistribuzione dei posteggi.
"No guardi ci deve essere un errore. Io parcheggio lì da cinque anni."
"Nessun errore, ho qui il nuovo elenco"
Mi diressi nel mio ufficio. Quando entrai vidi un tizio seduto sulla mia scrivania.
"E lei chi è?"
"Ah, la stavo aspettando."
"FUORI DAL MIO UFFICIO."
"Sono il nuovo direttore. E questo non è più il suo ufficio. La segretaria l'accompagnerà in quello nuovo."
La segretaria entrò e con un cenno della mano mi invitò ad uscire. Non ci potevo credere. Mi stavano facendo il torello.
"Io non mi muovo da qui"
"Non renda le cose più difficili. Se ne vada per favore".
"Se ne vada lei."
Lo vidi stringere i pugni: "IO NON HO TEMPO DI DISCUTERE CON TE".
Si avvicinò e sorridendo mi disse: " Mi hanno detto che sei diventato mezzo matto. L'unica ragione per cui Boccaletti non ti ha licenziato in tronco è che non voleva creare un caso sindacale".
Concluse guardandomi con disprezzo: "Via, fuori da questo ufficio."
Tirò fuori dal cassetto un mazzo di fiori e me lo lanciò addosso.
"E PORTATI FUORI PURE QUESTI!"
Era il mazzo di fiori che ricevevo ogni giorno. Mentre piangevo la segretaria mi condusse al piano superiore. Mi indicò una porta:"Eccoti in mezzo ai tuoi simili, stronzo".
Era la stanza degli handicappati. Lì dentro c'erano sette persone, cinque uomini e due donne. Tre mongoloidi, due paraplegici, un sordocieco. Più un altro che non avevo mai capito bene che cosa avesse, ma camminava tutto storto. Erano stati assunti per rispettare la quota di legge.
Niente telefono. Nella stanza c'era solo un tavolo ovale e loro in fila, accomodati tutti da una parte. Salutai e mi sedetti di fronte a loro, nella parte vuota, fradicio di sudore e tremebondo.
Uno cantava. Due cercavano di giocare a carte. Una lavorava a maglia. Un altro mangiava tutto il giorno. Ad un certo punto si sentì male, gli altri cominciarono ad urlare, arrivò la segretaria e chiamò i parenti a casa perché venissero a prenderselo in fretta.
Non avevo nulla da fare. Appena alzavo lo sguardo dal giornale vedevo uno che sbavava. Mi veniva da vomitare. L’handicappata che lavorava a maglia fissava con insistenza il mazzo di fiori che stringevo in mano. Poi volse lo sguardo verso di me.
“Te li posso leggere?”
Rimasi in silenzio, confuso.
“I fiori! Mio papà mi ha insegnato il linguaggio dei fiori. Te li posso leggere?”
La guardai perplesso per qualche istante, poi le porsi il mazzo di fiori che ricevevo tutti i giorni.
Lei lo prese, felice come una bambina, e cominciò ad osservarlo.
Quando finalmente lesse il messaggio, le sue parole mi sembrarono rimbombare nella stanza sempre più forte, come se volessero trapanarmi il cervello.
“Sono Dio, il messaggio dei fiori è sono Dio.”.
Mi portai le mani sulla testa e cominciai a premere forte.Gli altri handicappati mi guardavano ridendo e sbavando. Poi cominciarono a ripetere il messaggio dei fiori con una specie di cantilena infantile e beffarda.
“Sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio…”.
Continuarono fino a quando non corsi fuori dalla stanza, lasciando la mia lettera di dimissioni lì, sul tavolo.
La mia macchina era ancora in mezzo al parcheggio. Mentre uscivo per l’ultima volta dal cortile della Barzotto, riuscivo a pensare solamente ai pomeriggi d'Agosto di quando ero bambino.
Pomeriggi passati a rincorrere passeri. Quanto li ho amati. Avevo messo a punto il passo felpato rubandolo al mio gatto, e i passeri quando mi avvicinavo non mi sentivano, poi correvo in casa gridando l'ho preso l'ho preso e mio padre sorrideva. Li imbeccavo di molliche di pane imbevute nel latte, usando uno stuzzicadenti. Tenero eh? Ero un bel bambino. Mi piaceva tenerli in mano perché erano morbidi e sentivo il loro cuoricino battere fortissimo. E poi finivano in gabbia, e la gabbia era spaziosa, e io la tenevo pulita, e il miglio c'era, e l'acqua pure, e allora non mi spiegavo perché quei passeri dopo tre giorni puntualmente finissero stecchiti sul fondo.
Massimo tre giorni. Poi piangevo. Da quanto tempo ero in gabbia? Non lo ricordavo più.
Guidavo più veloce del solito. Nonostante il caldo tenevo il maglione sopra la camicia buona e il volume quasi al massimo. Non sapevo dove andare. Mentre percorrevo quella strada molto lunga, dove non c’era mai traffico, ricominciai a sentire la voce degli handicappati risuonarmi sempre più forte dentro la testa, mi entrava nel cervello.
“Sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio sono Dio…”
Quella cantilena era insopportabile. Non riuscivo a resistere. Chiusi gli occhi e urlai più forte che potevo.
Non ricordo di essere uscito dalla strada. Non ricordo il fragore dello schianto della mia auto. Ricordo solo il viso di mio padre, che stava accanto al mio letto e sorrideva mentre tentava di togliermi le bende dal viso.
“Il dottore ha detto che devo tenerle ancora per qualche giorno”, gli dissi.
Continuò a sorridere:“Beh, non vorrai andare al lavoro tutto bendato?”
“Ma di cosa parli?”.
“Stamattina sono stato alla Barzotto. Ho parlato io con il direttore. Ti riprendono a lavorare”.
Ripose le bende sul comodino accanto al letto: “Coraggio, alzati e vai a sciacquarti la faccia”.
Andai in bagno e cominciai a fissare il mio volto riflesso sullo specchio, mentre sentivo mio padre che mi parlava, nell’altra stanza: “…ti ricordi l’operaio che avevi assunto per sostituire Riccardo? Beh, non ci crederai, si è licenziato. Non gli piaceva il lavoro, ha detto. E’ da una settimana che stavano cercando un altro operaio. Certo, è un lavoro di ripiego, ma se ti dai da fare, e non perdi tempo, sono sicuro che presto ti ridaranno il tuo telefono e la tua scrivania. Non sei contento?”
Continuavo a fissare lo specchio.
La faccia, la mia faccia, era completamente sfigurata.
“Rispondi!… Non mi senti?…Dì qualcosa!…Non sei contento?…Che c’è?…Perché non parli?… Perché continui a restare in silenzio?…”.

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