Sceneggiatura Lungometraggio
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IL TEMPO DI MORIRE
Premio Sonar Script GS 2001
Autore: Francesca Fornario
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Presentazione Sceneggiatura:
E noi che scriviamo serviamo a così poco: anche noi illusi di combattere il sistema con i paradossi, che sono sì l’unico modo per penetrare l’essenza delle cose (e questa è di Oscar Wilde, non ci sono santi), ma peccato che la gente non li capisce, o si ferma al paradosso in sé, o si incazza perché il paradosso è violento, e insomma, in ogni caso quanto è più distante, quanto si allontana sempre di più l’essenza delle cose...” Tiziano Sclavi “

Il tempo di morire” è il titolo di una canzone che i miei coetanei chiamano ostinatamente “Motocicletta”. Ed è un paradosso, perché per congedarsi dalla vita, comunque vanno le cose, non abbiamo che un attimo. Il tempo che precede quell’attimo, ci piaccia o no, è tempo di vivere, pure se delegando il controllo del flusso dell’urina ad un sacchetto di plastica. Questo film racconta la storia di uno che della vita rifiuta la consapevolezza, e che messo di fronte alla morte si trova invece costretto a cercare un senso da dare alle cose, che forse è il solo scopo della nostra esistenza. A prescindere dal fatto che quel senso continuerà a sfuggirci, che forse non c’è un principio di tutto, che forse c’è, che forse ci sta prendendo in giro. Tutto questo lo racconto come in un fumetto, con personaggi vestiti sempre allo stesso modo che sono la parodia di personalità reali, come quello che faceva il palo nella banda dell’Ortica nella canzone di Enzo Janacci, un altro che ha eletto a mezzo di comunicazione più efficace il paradosso, con buona pace del telefono cellulare, un altro che in un mondo decente svetterebbe in testa alle classifiche degli album più venduti e che invece se ne sta a casa gonfio di malinconia, con un disco nuovo che nessuno vuol produrgli, mentre un chitarrista dotato di cui non faccio il nome vende migliaia di copie del suo “I grandi successi di Alex Britti” con un trascinante brano intitolato La vasca, ove sostiene la tesi secondo la quale il massimo della vita sarebbe tuffarsi e rituffarsi nella vasca da bagno e schizzare l’acqua tutto intorno, in antitesi a quanto affermano i celebrati “Lunapop”, ossia che la cosa più bella sia andare in giro con il cielo sotto i piedi mentre la Vespa Special ti risolve i problemi (Sì? e come? Ma intanto vendono milioni di dischi anche loro). Chiedo scusa della digressione, ma il punto, tornando alla scelta del registro del film, è che io sono cresciuta ascoltando i dischi dei miei genitori, quelli con i paradossi fulminanti di cui sopra, quelli che ti spiegano che bisogna guardare ogni giorno se fuori piove o c’è il sole per capire se domani si vive o si muore e che Dio è morto nelle auto prese a rate e che dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior. Quelle che insomma andavano dritte al senso della vita. Ecco, la mia scuola è quella lì, ne consegue che più che il buco dell’ozono e lo sfoggio sconsiderato di smalto brilluccicante per i piedi (che sono alcune delle conseguenze) di questo mondo mi sconcerta la mancanza di consapevolezza, la risoluzione a non pensare - ribadita dai cantautori del momento - in quanto pensare è un’attività che richiede tempo e fatica spesso sprecata e non è deducibile dalle tasse. Da Otello, l’osteria romana che rifocilla i reduci del nostro cinema migliore, mentre le signore sgombrano il tavolo per giocare allo scopone, si fa un gran parlare del perché il neorealismo non funziona più come una volta. Un tempo, si dice, la gente scappava dal cinema urlando quando un treno in corsa attraversava il proiettore, oggi son tutti lì che sgranocchiano pop-corn mentre schizzano da ogni parte gli arti mozzati dei soldati americani sbarcati in Normandia. Ma questo è un po’ come rimpiangere la mezza stagione. Il punto, mi pare di poter dire, è che la realtà oggi è sovresposta. La realtà che vediamo è troppa, e troppo irreale per essere credibile. E non al cinema, dove non va nessuno, o sui giornali, che non legge nessuno, ma in televisione. La morte, quella vera, non fa più scandalo. Figuriamoci la vita. Mostrarla per quello che è non rende partecipe nessuno: non diverte, non commuove, non interessa. E allora ecco, una cresciuta con l’ostinazione di dare un senso alle cose, tenta di battere altre strade, ci prova col metodo delle canzoni di una volta, con l’ironia, con le metafore e i paradossi: “L’unico modo per penetrare l’essenza delle cose”. Le citazioni sono il mio forte. E’ quando devo esprimermi con parole mie che mi trovo in difficoltà.

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Notizie sull'autore :
Ho una vita molto poco avventurosa, dunque saprò cavarmela in meno delle canoniche mille e 800 battute. Anche perché non tutte farebbero ridere. Sono stata una bambina molto precoce, il giorno in cui ho capito definitivamente come sarebbero andate le cose mettevo per la prima volta piede all’asilo. Ero lì, con tutti i bambini, è all’improvviso mi è scappata pipì. La suora mi ha detto che il bagno era esattamente di fronte alla nostra aula, non potevo sbagliare, diceva lei. Volevo chiederle di accompagnarmi ma la regola era mai contraddire gli adulti, specie quelli in divisa. E’ che quando mi trovavo in un posto nuovo non mi muovevo di un passo per paura di perdere la strada. La mia non era una fissazione infantile, mi perdevo sul serio. Ed è imbarazzante sentirsi continuamente chiamati dall’altoparlante dei supermercati, come una qualunque offerta speciale. Mi sono affacciata fuori dall’aula per valutare la fattibilità dell’impresa. Ho Verificato che, in effetti, di fronte a me c’era un’unica porta. Potevo farcela. Sono andata verso la porta, la ho aperta, ho assunto la tipica posizione windsurf per non venire contagiata dai germi che abitano sulla tavoletta del gabinetto e poi ho fatto per uscire. Sulla soglia del bagno ho vacillato. Di fronte a me c’erano due porte. Un rischio che non avevo calcolato. Le etichette erano indecifrabili per una bambina di quattro anni, e io non avevo nessun elemento per stabilire quale delle due porte conduceva alla mia aula. A parte aprirne una a caso e verificare, ma ci volevano ancora molti anni per capire che al mondo era consentito commettere errori, a patto di essere la sola a pagare. E così, mi sono fatta indicare dall’istinto quale porta aprire e mi sono diretta verso quell’altra. In genere funzionava. Quella volta, no. C’erano bambini piccolissimi e maestre sconosciute. Era così imbarazzante. Mi sono detta: “Mi siedo qui, qualcuno mi noterà, capirà che sono nel posto sbagliato e mi condurrà al sicuro”. Non se ne è mai accorto nessuno. Ogni tanto continuo a sperare che arrivi qualcuno: “Santo cielo, c’è stato un equivoco, questo non è posto per lei, venga che la accompagno in un mondo dove i giornali non dedicano tanta attenzione ai Savoia...” Ma niente.

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